Il difficilissimo equilibrio tra ritorno degli ostaggi e smantellamento di Hamas, entrambi indispensabili Editoriale del Jerusalem Post
Testata: israele.net Data: 24 gennaio 2024 Pagina: 1 Autore: Editoriale del Jerusalem Post Titolo: «Il difficilissimo equilibrio tra ritorno degli ostaggi e smantellamento di Hamas, entrambi indispensabili»
Riprendiamo dal sito www.israele.net - diretto da Marco Paganoni - un editoriale del Jerusalem Post del 23/01/2024 dal titolo: "Il difficilissimo equilibrio tra ritorno degli ostaggi e smantellamento di Hamas, entrambi indispensabili”.
Mentre la guerra dentro la striscia di Gaza si avvicina al quarto mese, vengono messi in discussione con crescente frequenza la sua direzione, gli obiettivi e persino la misura dei successi fin qui conseguiti.
Noi israeliti avremo anche vagato nel deserto per 40 anni ma siamo persone impazienti, soprattutto quando è in gioco la vita di oltre 130 ostaggi e quella di migliaia di soldati che stanno combattendo nei tunnel e fra le case del sud di Gaza.
Hanno una duplice missione: eliminare la presenza e la dirigenza di Hamas e localizzare gli ostaggi. Tuttavia, secondo alcuni esperti militari la probabilità di conseguire entrambi gli obiettivi è scarsa.
Secondo fonti americane citate dal Wall Street Journal, Israele ha ucciso tra il 20% e il 30% dei combattenti di Hamas (e Jihad Islamica) nella striscia di Gaza. Queste cifre, un po’ inferiori alla valutazione israeliana, sono tutt’altro che trascurabili e non possono essere in alcun modo definite un insuccesso. In tre mesi Israele ha messo fuori combattimento (morti, feriti e catturati) fra un terzo e metà delle forze di Hamas (valutate prima della guerra tra i 30 e i 40mila uomini armati ndr). Fin dall’inizio, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha affermato che questa guerra non sarebbe durata sei giorni e nemmeno sei settimane. Si parlò di un anno come tempistica per uno scrupoloso (e pericoloso) processo di smantellamento dei tunnel e di ricerca porta a porta dei terroristi e degli ostaggi.
Le Forze di Difesa israeliane sembrano essere sulla buona strada in questo quadro di durata annuale. Resta però da vedere se a Israele verrà dato il tempo necessario per portare a termine l’operazione, tra le crescenti pressioni dall’esterno per il numero di vittime a Gaza e le crescenti pressioni dall’interno per la mancata liberazione di altri ostaggi dopo la fine della tregua di novembre.
Questo è il momento in cui il governo deve tener duro. Netanyahu lo ha fatto domenica quando ha rifiutato un piano per la fine alla guerra che prevedeva il ritiro da Gaza lasciando a Hamas il controllo dell’enclave, e la scarcerazione di tutti i terroristi palestinesi detenuti, compresi quelli che hanno perpetrato il massacro del 7 ottobre, in cambio degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. “Respingo totalmente queste condizioni di resa ai mostri di Hamas – ha detto Netanyahu – Se accettassimo, i nostri soldati sarebbero caduti invano. Se accettassimo, non potremmo garantire la sicurezza dei nostri cittadini, non potremmo riportare gli sfollati alle loro case in sicurezza e il prossimo 7 ottobre sarebbe solo questione di tempo”.
Una fine prematura della guerra lascerebbe Hamas deteriorata, ma sostanzialmente ancora in grado di riprendersi e ripristinare la sua stretta mortale su Gaza e sui palestinesi che tiene in ostaggio dal 2006. E questo è qualcosa con cui Israele non può letteralmente convivere. Basta ascoltare Khaled Mashaal, il leader di Hamas che in un’intervista della scorsa settimana ha ribadito che, dopo il 7 ottobre, “il nostro diritto alla Palestina nella sua interezza dal fiume al mare non è qualcosa da aspettare o sperare, è un’idea realistica già avviata” a realizzazione.
Le famiglie degli ostaggi e i loro sostenitori sono perfettamente giustificate e hanno ragione di protestare e chiedere un cessate il fuoco e un accordo per riportare a casa i loro cari. Chiunque abbia un membro della famiglia ferocemente tenuto prigioniero per più di tre mesi chiederebbe iniziativa e responsabilità al proprio governo.
Tuttavia, un governo ha anche il dovere guardare al quadro più ampio. In questo caso, è la minaccia rappresentata da Hamas alla vita di tutti gli israeliani, attuali e futuri, il fattore principale che alimenta questa guerra.
Il problema è che, oggi, una larga parte della popolazione conosce un significativo crollo della fiducia riguardo alle motivazioni di Netanyahu. Ci si domanda cosa prevalga in esse: se il bene del paese, o la sopravvivenza del governo di cui è alla guida, o procrastinare l’inevitabile tempesta di biasimo che verosimilmente lo travolgerà dopo la guerra. Se l’attuale governo venisse sciolto e si tenessero nuove elezioni, ci sono ottime probabilità che il prossimo primo ministro sarebbe qualcuno diverso da Netanyahu (Benny Gantz? o Yair Lapid?).
Ma nonostante il cambiamento al timone, o nella composizione della coalizione di governo, il prossimo primo ministro adotterà quasi certamente la stessa politica: nessun ritiro da Gaza e continuazione dei combattimenti finché Hamas non sarà più al potere.
Le Forze di Difesa israeliane devono avere il tempo di portare a termine questa missione. Ma per quanto riguarda gli ostaggi il tempo stringe. Spetta al governo, sotto la guida di Netanyahu o di qualcun altro, contrastare le pressioni per un cessate il fuoco alle condizioni di Hamas, mantenendo al tempo stesso come massima priorità il ritorno degli ostaggi. (Da: Jerusalem Post, 23.1.24)
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