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La Stampa Rassegna Stampa
04.07.2003 Liberazione dei prigionieri e smantellamento del terrorismo
da un'attenta analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 04 luglio 2003
Pagina: 8
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Prigionieri e terrorismo le incognite della pace»
Riportiamo l'articolo di Fiamma Nirenstein pubblicato su La Stampa venerdì 4 luglio 2003.
Fino a qualche ora fa il nome di un detenuto come Suleiman Abu Mutlak, ritenuto responsabile dell’attacco a un autobus scolastico che aveva mutilato due bambini e ucciso tre persone, era per Israele legato solo a un episodio di orrore. Da ieri, quando è stato rilasciato e restituito al suo lavoro di capo della polizia preventiva di Gaza, su richiesta specifica di Muhammed Dahlan, il ministro della Difesa palestinese che lo ritiene una pedina fondamentale, Abu Mutlak è parte dell’Hudna. La sua liberazione è avvenuta in una giornata prodiga di violazioni del giovanissimo accordo fra israeliani e palestinesi. Ci sono le lesioni superficiali, come gli attacchi terroristici di questi giorni e, da parte di Israele, le operazioni di cattura di ricercati importanti nella West Bank; c’è il campo diplomatico, ancora confuso, che vede da una parte la condanna di Abu Mazen del terrorismo e dall’altra gli atti simbolici di Israele, come bloccare per alcune ore la strada di Gaza dopo lo sparo dei missili su Kfar Darom.
Ma il momento della verità si giocherà sulla liberazione dei prigionieri per quel che riguarda Israele, e sullo smantellamento delle organizzazioni terroristiche per quello che invece concerne i palestinesi. Abu Mazen e Sharon di fatto durante la cerimonia di due giorni or sono, oltre a una quantità di retorica pacifista, si sono consegnati solo questi due messaggi, evitando accuratamente altri soggetti scottanti come i Territori, i profughi, Gerusalemme. Sharon ha sgombrato Gaza e Betlemme, come aveva promesso, e ora aspetta le reazioni: se, ad esempio, a Gaza la polizia interverrà contro i lanciatori di missili, nei prossimi giorni probabilmente ci saranno altri ripiegamenti di truppe dalle città palestinesi della Cisgiordania. Nel frattempo il premier israeliano ha rimesso in libertà diciannove prigionieri, compresi alcuni «col sangue sulle mani», proprio quelli che aveva giurato di non lasciare mai uscire. Domenica alla Knesset probabilmente si svolgerà una delle discussioni più drammatiche della storia d’Israele,: di fronte alle liste di centinaia di nomi che vengono febbrilmente preparate in queste ore si leverà la reazione delle famiglie, di quelli che hanno perso figli, madri e mariti. Yeoshua Oz, una sorella uccisa da un attentato sull’autobus numero 405 nel luglio dell’89, dice: «Stamattina ho trovato sul giornale, fra i prigionieri liberati, il nome del suo assassino. Perché proprio questa deve essere la prima cosa da fare? Perché non si risolvono prima le questioni fondamentali, sui profughi, su Gerusalemme, e non ci decidiamo a questo passo terribile solo quando la pace sarà in vista? Tutto questo è puro tormento per le famiglie degli uccisi, un azzardo che si compie sulla pelle di tutti, e in particolare su quella di chi ha già tanto sofferto». Ma Sharon ha deciso che questo passo è inevitabile: i palestinesi vogliono innanzitutto il rilascio di prigionieri veterani, incarcerati da più di dieci anni, oltre a quello dei detenuti amministrativi. Attualmente Israele custodisce circa 7000 palestinesi e il più famoso tra loro, Marwan Barghouti, è addirittura un candidato alla leadership del futuro Stato palestinese e un mediatore dell’attuale Hudna. I prigionieri sono per l’opinione pubblica palestinese quelli che pagano il prezzo più alto della guerra di liberazione nazionale, secondi solo agli shahid, i «martiri» terroristi suicidi. Molti tra questi sono organizzatori o mandanti o strumenti minori del terrore, ma poiché il loro rilascio è un argomento che mette insieme, una volta tanto, tutte le fazioni, il successo dell’operazione può dare prestigio alla leadership di Abu Mazen.
Lo smantellamento delle organizzazioni terroristiche è un punto ancora più complesso: innanzitutto l’intreccio fra organizzazioni come le Brigate di Al Aqsa e i servizi di informazione della Sicurezza è molto fitto, come si vede per esempio dalla pressante richiesta di Dahlan che ha condotto alla liberazione di Abu Mutlak. Gli autori e i mandanti di tanti attentati contro Israele sono spesso uomini in divisa che, secondo le carte firmate da Rabin e Arafat, avrebbero dovuto servire a fermare appunto, i terroristi. Di conseguenza, quando il governo israeliano chiede che le organizzazioni terroristiche consegnino le armi all’Autonomia tocca un punto dolente. «Le organizzazioni non saranno disarmate - afferma il segretario della Jihad islamica, Ramadan Abdullah Shalakh - perché significherebbe smantellare la nazione palestinese. Noi non consegneremo le armi e speriamo che l’Autorità non ci chieda di farlo. Sono armi legittime, servono a difendere il popolo palestinese». Il problema, secondo l’Autorità palestinese, non è quello di togliere alle organizzazioni terroristiche le armi, ma di portarle a cambiare la loro agenda politica. «Questo si raggiunge con negoziati e non con una guerra civile». Ma il programma, lo si è visto ancora ieri col lancio dei missili su Kfar Darom, i cui responsabili sono stati sì fermati ma subito dopo rilasciati, è difficilissimo a mettere in pratica.
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