Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 14/01/2024, a pag. 1, con il titolo “Il coraggio di Taiwan” l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
La vittoria di Lai Ching-te del Partito progressista democratico taiwanese rappresenta una sconfitta per la Cina, che aveva provato a demonizzarlo.
Nelle prime votazioni dell’anno più elettorale di sempre l’isola di Taiwan ha recapitato a Pechino un messaggio inequivocabile: sì alla sovranità nazionale, no all’annessione alla Cina popolare. Era stata proprio Pechino a presentare le presidenziali taiwanesi come una scelta fra “la pace e la guerra” indentificando il proprio nemico con il candidato del Partito progressista democratico (Dpp) Lai Ching-te, vicepresidente uscente, ma la minaccia si è trasformata in un boomerang perché a vincere è stato proprio Lai. È un risultato che pesa perché si tratta delle terze elezioni presidenziali consecutive vinte dal Dpp, grazie ad una piattaforma politica che — a dispetto di un’economia in affanno e del malcontento per l’aumento dei costi dell’immobiliare — ha puntato proprio su una forte affermazione dell’autodeterminazione e un deciso rifiuto alle ripetute minacce cinesi di riunificazione. Ecco perché, ringraziando gli elettori, Lai ha parlato di un “voto che conferma l’incrollabile fedeltà alla democrazia” promettendo di continuare “il cammino a fianco alle altre democrazie del mondo”. A cominciare dagli Stati Uniti di Joe Biden, che hanno inviato una delegazione a Taipei per sottolineare il forte legame bilaterale, come da Unione Europea e Giappone, da cui è arrivato un caloroso saluto al nuovo presidente taiwanese. Ovvero, la strategia dell’Indo-Pacifico disegnata dall’amministrazione Biden e fatta propria dalla Nato — basata sul legame con le democrazie dell’Estremo Oriente — oggi viene rafforzata. La sconfitta per la Cina di Xi Jinping è triplice. Innanzitutto, le roboanti minacce non hanno funzionato a dimostrazione che le prove di forza militare nelle acque e nei cieli taiwanesi non hanno indebolito, bensì rafforzato, il legame con la democrazia. In secondo luogo, la scelta di puntare apertamente su Huo Yu-ih, candidato del partito nazionalista pro-cinese Kuomintang — lo stesso che nel 1949 guidò la separazione di Taiwan da Pechino — non ha avuto l’effetto sperato, a dimostrazione che l’ineluttabilità del “ricongiungimento” non è un valore condiviso dalla maggioranza degli abitanti. Infine, ma non per importanza, a perdere è l’idea di una Cina muscolare, invadente, prepotente al punto da voler dettare ai Paesi dell’Estremo Oriente ogni sorta di condizioni: da dove passano i confini marittimi a chi appartengono materie prime e le isole contese, fino a chi deve governare in casa altrui. Da qui la previsione, da parte di fonti diplomatiche a Taiwan e Washington, che Pechino decida di rispondere allo smacco esercitando “forti pressioni” — non solo economiche ma anche militari — su Taipei in coincidenza con l’insediamento del nuovo presidente, il 20 maggio. Magari tentando di ottimizzare a proprio favore il risultato del voto per il Parlamento, dove Lai avrà probabilmente bisogno dell’opposizione. Xi Jinping potrebbe però seguire anche un’altra strada: fare tesoro del significato del voto di Taiwan e comprendere che non è nell’interesse di Pechino cedere alle pressioni delle gerarchie militari che sognano la riunificazione e vogliono portare la sfida a Washington oltre ogni linea rossa. A ben vedere, nel recente vertice di San Francisco con Biden, proprio Xi aveva fatto trapelare la volontà di seguire un percorso di realpolitik con gli Stati Uniti e se il voto di Taiwan dovesse portarlo a consolidare questa scelta, potremmo avere una Cina più responsabile sulla scena internazionale. Con effetti positivi che possono andare ben oltre l’Estremo Oriente. Non a caso il Segretario di Stato, Antony Blinken, continua a descrivere l’orizzonte dei due Paesi con l’espressione “competizione nell’interdipendenza”. In attesa di sapere come Xi reagirà alla doccia fredda del voto di Taiwan, possono esserci pochi dubbi sul fatto che quanto avvenuto sull’isola nazionalista cinese contiene un messaggio anche per tutti quei leader e partiti che, in Nordamerica ed Europa, esprimono perplessità sulla democrazia rappresentativa, considerandola un sistema decadente, corrotto e destinato all’autodistruzione. Cedendo alla seduzione delle autocrazie di Mosca e Pechino. La verità è opposta: Taiwan dimostra che per i popoli minacciati da vicini aggressivi la fedeltà alla democrazia è la più cruciale delle garanzie di sopravvivenza delle proprie libertà così come il legame con la comunità delle democrazie consente di affrontare le sfide più difficili. Ecco perché c’è una connessione profonda fra la determinazione con cui Taiwan ha respinto le minacce di Pechino, il coraggio con cui l’Ucraina resiste all’aggressione russa e la coesione con cui Israele ha reagito al pogrom dei terroristi Hamas: quando le democrazie vengono aggredite, trovano al loro interno le risorse più importanti per difendersi e sopravvivere. Per il semplice motivo che, come disse Winston Churchill alla Camera dei Comuni di Londra nel 1947, “la democrazia è la peggior forma di governo, fatta eccezione per tutte le altre fino ad ora sperimentate”.
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