Le reazioni in Israele Commento di Francesca Caferri
Testata: La Repubblica Data: 12 gennaio 2024 Pagina: 3 Autore: Francesca Caferri Titolo: «Netanyahu: “È un’ipocrisia” E nelle città c’è sgomento “Noi ci stiamo solo difendendo”»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 12/01/2024, a pag.3 con il titolo "Netanyahu: è un’ipocrisia. E nelle città c’è sgomento: noi ci stiamo solo difendendo”. L'analisi di Francesca Caferri.
Netanyahu denuncia l'ipocrisia di chi processa Israele che si sta difendendo da un attacco sanguinario di Hamas
TEL AVIV — «Israele è accusato di genocidio mentre combatte contro il genocidio. Il mondo è sottosopra». L’ “ipocrisia” (l’espressione è del premier israeliano Benjamin Netanyahu) dell’accusa di genocidio che il Sudafrica ha presentato ieri all’Aia è il sentimento dominante con cui la maggioranza degli israeliani ha seguito ieri la prima udienza della Corte di giustizia internazionale.
A dare il polso dell’umore, la maniera in cui sin dai giorni scorsi la maggioranza dei media ha raccontato il procedimento: ieri mattinaYediot Ahronot ha pubblicato le testimonianze dei medici chiamati a identificare le vittime del 7 ottobre, che hanno parlato dei segni di “odio allo stato puro” rilevati sui cadaveri, andando a colpire nel vivo dello sdegno e dello stupore di una nazione che ancora vive immersa nello shock del Sabato nero e che ieri si è vista trasformata da vittima a carnefice nell’aula dell’Aia.
«Il contenuto di questo articolo è molto duro, ma riteniamo che pubblicarlo nel giorno in cui Israele è costretto a difendersi per una guerra a cui stato costretto da una brutalità senza precedenti sia della massima importanza», scriveva il quotidiano. Una posizione che per tutto il giorno è stata rilanciata dai principali canali televisivi, che nel racconto della giornata hanno dato ampio spazio a chi, come l’ex ambasciatore a Londra Daniel Taub, ha parlato della «continuazione di un processo che va avanti da anni e che vede le organizzazioni terroristiche palestinesi operare fra i civili e approfittare dell’asimmetria fra attori statali e non statali per criminalizzare il diritto di Israele a difendersi». O di chi, come l’avvocatessa Nitsana Darshan-Leitner, da anni specializzata in casi di terrorismo di matrice islamica, sottolinea come il mondo non riesca a percepire la «minaccia esistenziale» che lo Stato ebraico sta affrontando. «Secondo il diritto internazionale – ci ha spiegato al telefono – è chi usa la popolazione come scudo umano ad essere responsabile delle perdite civili. Come agirebbe l’Italia se un gruppo terroristico dalla Francia minacciasse la sua esistenza? Israele è costretto a difendersi».
A dimostrare la presa quasi totale che queste posizioni hanno sul pubblico c’è l’opinione espressa dal leader dell’opposizione Yair Lapid, che per una volta ha usato parole simili a quelle di Netanyahu, spiegando che una eventuale vittoria del Sudafrica sarebbe una «ricompensa per il terrorismo. Non è Israele ad essere sul banco degli accusati, ma l’integrità della comunità internazionale», ha scritto in un messaggio su X (l’ex Twitter).
Ma se la maggior parte degli israeliani restano compatti dietro alla guerra e alle azioni dell’Idf – lo dimostra il fatto che la morte di tre ostaggi a Gaza per fuoco amico è stata accettata dalla buona parte dell’opinione pubblica come un dolorosissimo incidente, e non ha provocato fratture con i militari - cento giorni di guerra hanno fatto riemergere nella variegata società israeliana una minoranza di voci che non sono d’accordo con l’attacco a Gaza e soprattutto con i modi in cui è condotto. Due giorni fa qui a Tel Aviv avrebbe dovuto tenersi una manifestazione per chiedere uno stop ai bombardamenti e agli attacchi contro i civili palestinesi, ma è stata vietata dalla polizia che temeva scontri. Lo stesso è avvenuto per un evento in calendario ad Haifa per domani.
Dopo le prime settimane di shock, oggi questa per parte dei progressisti scendere in strada non significa sottoscrivere le accuse sudafricane: ma rimarcare la necessità di non sposare la linea del governo e in modo più allargato di chi sostiene l’attacco e le sue modalità. Lo dimostrano due documenti che negli ultimi giorni hanno animato il dibattito qui, attirando plausi e critiche a seconda di chi è stato chiamato a commentarli: il primo è una lettera inviata il 28 dicembre alla Procuratrice generale Gali Baharav- Miara da un gruppo di ex parlamentari, diplomatici e giornalisti per chiedere che indaghi sul fatto che «gli inviti espliciti a commettere crimini atroci contro milioni di civili sono diventati parte legittima e regolare del discorso politico israeliano». La lettera cita «appelli allo sterminio di milioni di civili, alla pulizia etnica e alle espulsioni di massa», in riferimento alle posizioni di alcuni rappresentanti dell’estrema destra.
Il secondo è un appello a Dani Dayan, presidente dello Yad Vashem, firmata tre giorni fa da sessanta studiosi dell’Olocausto di tutto il mondo (Israele compreso) per mettere in guardia dal fatto che «l’incitamento alla distruzione e l’invito ad eseguire gravi crimini sono in molti casi il primo passo per l’esecuzione di questi crimini».
Oggi all’Aia Israele presenterà la sua posizione, contando poi sul parere del giudice Aharon Barak: un uomo che a lungo ha diviso l’opinione pubblica, ma oggi è chiamato a rappresentare una nazione intera che si sente chiamata ingiustamente in causa.
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