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La Stampa Rassegna Stampa
01.07.2003 La Road Map vista dalla parte palestinese
reportage e retroscena dopo il, primo giorno di tregua

Testata: La Stampa
Data: 01 luglio 2003
Pagina: 11
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Intervista e analisi»
Un'intervista ad un comandante palestinese e una analisi dei terroristi che si richiamano direttamente ad Arafat consentono di capire che cosa sta succedendo dopo il primo giorno di "tregua".Ne scrive Fiamma Nirenstein sulla Stampa di oggi martedì 1° luglio 2003.
Ecco il primo pezzo:

«La gente si sente sollevata
e controlliamo la situazione»

GAZA
SA’EB al Agez, dall’aspetto posato, capelli grigi, divisa in ordine, è il comandante della sicurezza nazionale a Gaza, alle dirette dipendenze di Mohammed Dahlan, ovvero è l’uomo del momento: infatti con una stretta di mano fra comandanti, una pacca sulla spalla e molti colloqui su carte geografiche, mentre la polvere sollevata dai veicoli in uscita inondava i due nemici-amici, ieri gli israeliani gli hanno lasciato la difficile cura della responsabilità della sicurezza della parte Nord di Gaza. Ovvero, del Nord segnato dai posti di blocco di Netzarim e Gush Hativ. Tanti soldati vi hanno perso la vita, tanti palestinesi. Netzarim, testimone di tanti attentati e di tante morti, ha visto quella tragica e controversa del bambino Mohammed Al Doura, che aprì l’Intifada: i palestinesi dicono che sia stato ucciso dagli israeliani, ma Israele risponde con dovizia di particolari che è stato il fuoco palestinese a colpirlo. Il padre di Mohammed è andato in pellegrinaggio sul luogo in cui ha perso il figlio ieri per la prima volta. Gli israeliani se ne vanno portando via centinania di zaini e sacchi stipati nei camion pieni di materiale logistico, legni, tende, sedie, rotoli di filo spinato e di cavi vari; i palestinesi si riappropriano delle arterie di comunicazione con colonne aperte dalla polizia a cui subito si uniscono taxi gialli, biciclette, veicoli privati. L’atmosfera è in generale ottimista, i soldati israeliani poi sembrano entusiasti di uscire dalla sempiterna trappola di Gaza, ridono, gridano: "Mamma, vengo a casa". Alcuni, stanchi e seri, sono usciti dall’ultima azione notturna a caccia di terroristi. Sa’eb Al Agez appare sicuro di sé, soddisfatto mentre fa montare alcune tende al lato della strada che mette finalmente il Nord in comunicazione, senza posti di blocco, col centro di Gaza.
Comandante, com’è andata la prima giornata?
«Molto bene, dopo una così lunga e pesante costrizione la gente, anche chi non vuole ammetterlo, si sente sollevata. La folla curiosa e contenta si è data d’attorno tutto il giorno, guarda di nuovo al futuro, finalmente senza carri armati, senza sentirsi in prigione».
E’ bello quest’ottimismo, ma già oggi c’è stato un attentato di stampo classico, rivendicato dalle Brigate di Al Aqsa, in Cisgiordania. Si sa che qui a Gaza, casa madre di Hamas, molti gruppi non sono d’accordo con la Hudna, e Hamas stessa non rinuncerà al consenso che gli procurano gli attentati.
«Non deve ignorare la presa che ha sul pubblico palestinese una risoluzione delle organizzazioni cui ogni cittadino locale fa capo, sia Hamas, Jihad Islamica o Fatah. Magari non avverrà in un momento, ma noi fidiamo soprattutto sulla lealtà di ognuno ai suoi capi. La risoluzione comune delle organizzazioni è un fatto storico, c’è un cessate il fuoco voluto da tutti».
Da chi più e da chi meno, e da alcuni per motivi di opportunismo.
«Voluto da Arafat e Abu Mazen, e firmato da tutte le organizzazioni. Forse mai abbiamo avuto una così grande unità di consensi, il popolo ci tiene e ci spera».
Lei crede che sia una premessa per la pace con Israele?
«Io spero ardentemente che si tratti di questo».
I suoi uomini sono pronti ad affrontare i nuovi compiti?
«Il dispiegamento delle forze è andato benissimo, i piani sono stati osservati, siamo in grado di controllare il campo».
Vuole dire che siete in grado di affrontare qualsiasi emergenza? Potete garantire che da qui non escono attentati terroristici?
«Per ora direi che possiamo garantire che arresteremo, senza fallo, chiunque intenda violare la legge. Ai check-point noi controlleremo la gente, noi ne saremo responsabili, e andrà tutto bene. E ripeto: non ci saranno tentativi di attaccare Israele finché le organizzazioni danno ordini precisi ai loro membri».
Lei è molto ottimista, in Israele oggi ci sono cinquanta avvertimenti di attacchi per strada: dieci meno del solito. Nel caso dobbiate affrontare Hamas scoppiera’ una guerra civile?
«Abbiamo uomini ben allenati, armati e soprattutto motivati. Non ci sarà guerra fra noi: chi contravviene agli accordi è agli occhi della comunità palestinese un transfuga che si colloca fuori dalla strategia nazionale».
Non un eroe, uno shahid?
«Finché c’è l’ordine dell’Hudna è diverso».
Vi siete coordinati con gli israeliani? Ricevete informazioni da loro e viceversa?
«Siamo certamente coordinati, siamo a stretto contatto».
Chi difenderà gli insediamenti qui a Gaza?
«Gli insediamenti sono un problema molto difficile, per ora sono sotto la protezione dei soldati israeliani».
Pensa che da qui possa uscire la pace? Israele è molto scettica.
«Penso di sì, se ciascuno

Ecco il secondo pezzo:
La mina dell’incontrollabile milizia di Al Fatah

Frammentati, frustrati per il successo degli islamici, spesso non rispondono agli ordini

GERUSALEMME
LA ragione per cui le Brigate di Al Aqsa hanno aderito alla tregua è molto semplice: sono parte di Fatah, Arafat non permetterebbe loro di fare altrimenti. La ragione per cui invece hanno già ieri lanciato un attacco terroristico rivendicandolo uccidendo Christo Radkov, un lavoratore bulgaro di 46 anni con spari indiscriminati alla sua vettura, è un po’ più complicato, ma facilmente individuabile.
Innanzitutto,le Brigate di Al Aqsa, figlie del movimento di base dei Tanzim, a sua volta braccio armato popolare di Fatah, sono divise, calcola una fonte palestinese, in 18 diversi gruppi. Alcuni sono bande di giovinastri di stampo criminale, che non riconoscono nessun potere né regola, cresciuti nel mito della violenza terrorista. Sono dei groopies, si direbbe oggi, degli shahid, e nessuno li convincerà altrimenti. Altri invece sono prezzolati senza passaggi intermedi, con discreto allarme degli livelli ufficiali palestinese, da agenti iraniani che operano soprattutto a Nablus, trasferiti presso i palestinesi dalla Siria, e poi dal Libano. Così almeno dicono fonti palestinesi. Fatah ha perso il controllo su questi agenti.
Ma soprattutto quello che determina l’entrare e l’uscire dall’ambito dell’hudna (la tregua) in quello del terrore e viceversa da parte delle Brigate di Al Aqsa, è la sua attuale frammentazione politica. Intanto, Fatah e con essa le Brigate hanno molto sofferto della progressiva potenza di Hamas, del suo prendere piede fra la popolazione attraverso l’uso applaudito del terrorismo e, nei giorni scorsi, attraverso la sua nuova posizione di interlocutore indispensabile e legittimato (questo soprattutto a causa dell’atteggiamento egiziano) per qualsiasi accordo. Hamas è passata dai sobborghi di Gaza ai tavoli delle trattative, e allora le Brigate hanno pensata che sia venuta l’ora di sostituirlo nei sobborghi.
Inoltre c’è un personaggio noto ma nascosto che dobbiamo invece tenere ben presente se vogliamo capire le Brigate di Al Aqsa, ed è Marwan Barghouti, il fondatore della fama e della forza dei tanzim, uno dei maggiori sponsor e inventore delle Brigate di Al Aqsa, un leader 45enne chiuso da mesi, sotto processo, nelle carceri israeliane; è accusato dell’assassinio di centinaia di israeliani proprio negli attentati compiuti dalle Brigate di Al Aqsa. Ma Marwan Barghouti, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non giuoca un ruolo estremista oggi: non vuole restare in galera tutta la vita, sente che ha un ruolo politico davanti a sé, non vuole assolutamente essere confuso con i terroristi religiosi di Hamas e della Jihad che confinano con Al Qaeda. Al contrario ambisce a un ruolo nazionale e laico.
Dunque Barghouti da dentro la galera ha organizzato in queste settimane sessioni di discussioni sulla tregua e sulla Road Map che sono arrivate fino al centro della discussione politica nazionale, così accurate da essere, per così dire, scippate dalla leadership nazionale, quella dei vecchi, ovvero Arafat e il veterano del Parlmento palestinese Khadoura Fares nelle fasi finali della trattativa. Barghouti si è offeso dall’essere stato lasciato fuori dalle ultime mosse, e quando si è trattato di firmare l’accordo, ha brevemente trattenuto le Brigate dal farlo, e le Brigate hanno sostenuto una posizione imbronciata: «Nessuno ci ha consultato». Poi le cose si sono sciolte (forse qualcuno ricorda che Arafat in questi giorno ha promesso che presto Marwan, di cui parla con affetto, sarà libero) e il patto è stato firmato.
Ma i giovani di Barghouti, viziati da una cultura che esalta il terrorismo e che ancora non accenna a censurarsi, e sempre in concorrenza con Hamas e la Jihad islamica, hanno visto una buona occasione di scandalo e quindi di conquista di consensi nel rompere subito la tregua, e nel rivendicare l’attacco. Ma la briglia è stata subito tirata, sia da Barghouti che da Arafat. Ciò non toglie che molti giovani tanzim vivano l’apertura verso la tregua dell’attuale leadership come un puro gesto di vigliaccheria e di tradimento.


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