A 72 giorni dall’inizio del conflitto fra Hamas e Israele, vi sono almeno tre fronti aperti di guerra in Medio Oriente — a Gaza, in Sud Libano e nel Mar Rosso — e ovunque fervono intense trattative segrete che sovrappongono rischi e opportunità, capaci di ridisegnare l’intera regione. Addentrarsi in questo labirinto di negoziati significa affacciarsi sulle trasformazioni possibili in una regione dove, la Storia ci insegna, l’imprevedibile spesso si avvera. Il primo e più brutale fronte di conflitto è la Striscia di Gaza dove Israele si propone di distruggere Hamas, responsabile del pogrom del 7 ottobre nel Negev Occidentale, mentre Hamas punta a sopravvivere per continuare a battersi contro l’esistenza dello Stato ebraico. La trattativa fra i due nemici passa attraverso il Qatar, l’Emirato legato a doppio filo con Hamas ma che fu anche — dopo la conferenza di Madrid del 1991 — il primo Paese del Golfo ad aprire a Israele. Il premier qatarino, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, e il capo del Mossad, David Barnea, sono ad Oslo per riprendere la trattativa su liberazione degli ostaggi e cessate il fuoco ma in realtà c’è un terzo tema non dichiarato sul tavolo: trovare un accordo sull’uscita di ciò che resta di Hamas da Gaza per porre fine al conflitto. Poiché è Doha ad ospitare leader politici e ricchezze finanziarie di Hamas, solo Al Thani può avere carte a sufficienza per tentare di gestire con il premer israeliano Netanyahu un negoziato capace di arrivare a far coincidere gli interessi dei feroci contendenti: l’uscita di Hamas da Gaza e la sopravvivenza di Hamas. Le indiscrezioni sulla decisione di alcuni leader di Hamas di lasciare Doha verso Algeri e Ankara suggeriscono uno degli scenari possibili. Sul fatto che Hamas sia destinata a lasciare Gaza, d’altra parte, c’è una convergenza di fatto — pur con linguaggi differenti — fra Israele, Stati Uniti, Unione Europea e Paesi arabi moderati: l’unico ad affermare il contrario è l’Iran, alleato militare dei jihadisti. Se il negoziato Qatar-Israele — garantito e seguito da vicino dalla Casa Bianca, attraverso il capo della Cia Bill Burns — è il binario che può portare alla fine del conflitto, in parallelo ferve la più complessa trattativa sullo status della Striscia di Gaza nel dopoguerra. Israele afferma di non volerla occupare, si propone di mantenere il controllo della sicurezza e si oppone al ritorno dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) — che governava Gaza fino al 2007 — ma Stati Uniti, Unione Europea ed Arabia Saudita ritengono invece che questa sia in realtà la soluzione migliore. Con l’aggiunta, da parte della Casa Bianca, della necessità di “rivitalizzare” l’Anp, ovvero di avere un nuovo leader a Ramallah al posto dell’indebolito Abu Mazen. Anche in questo caso, sembrano posizioni inconciliabili ma ascoltando i Paesi arabi moderati — Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Arabia Saudita — ci si accorge che c’è un punto di partenza condiviso: evitare l’occupazione di Israele e costruire una soluzione per garantire la protezione umanitaria di oltre due milioni di civili palestinesi. Da qui l’ipotesi, di cui si discute, di un contingente internazionale formato da contributi di Paesi arabi moderati ed europei che potrebbe operare sotto l’ombrello Onu oppure — se Mosca si opponesse — su mandato della Lega Araba. Ecco perché da Washington trapela il nome del principe giordano Zeid Ra’ad Al Hussein, ex commissario Onu per i Diritti Umani, come capo di una possibile missione umanitaria nella Striscia. È questo scenario che spiega l’estrema prudenza dell’approccio al conflitto da parte dell’Arabia Saudita che ha congelato — ma non annullato — il negoziato con Israele e mantiene l’intenzione di concluderlo con un’intesa capace di includere la fine del conflitto israelopalestinese, come previsto dal piano Fahd del 2002. È questo anche il motivo che spiega perché i Paesi arabi firmatari degli Accordi di Abramo da una parte hanno duramentecondannato il bilancio di vittime civili degli attacchi israeliani a Gaza ma non hanno speso una parola a favore di Hamas e si sono opposti alla richiesta dell’Iran di una totale rottura dei rapporti con Israele così come di un embargo petrolifero che avrebbe innescato una crisi globale come avvenne dopo la guerra del Kippur del 1973. Si negozia anche sul Sud Libano, il fronte di guerra dove a combattersi ogni giorno sono Hezbollah filo-iraniani e Israele. Gli Stati Uniti puntano, con il sostegno di Germania, Francia e Italia, ad arrivare ad un rafforzamento della risoluzione Onu 1701 per far arretrare Hezbollah nel Sud fino al fiume Litani, come previsto dal testo varato dal Consiglio di Sicurezza nel 2006, in cambio di un’estensione della presenza del contingente Unifil lungo il confine israelo-libanese, anche in aree contese come le fattorie di Shebaa. A guidare il negoziato sul Sud Libano è l’inviato Usa, Amos Hochstein, mentre nel caso del Mar Rosso, la regia delle operazioni è al Pentagono perché qui Washington punta a creare una coalizione multinazionale di forze aeronavali per garantire la libertà di navigazione nello Stretto di Bab al-Mandeb — da cui si accede al Mar Rosso ed al Canale di Suez — proteggendo le imbarcazioni dagli attacchi con droni, missili e barchini lanciati dalle milizie yemenite Houthi, sostenute ed armate da Teheran. Londra e Riad sono i partner a cui Washington guarda di più nel Mar Rosso ma anche unità navali europee — ed italiane — potrebbero essere impegnate, come già avvenuto nella task force anti-pirati nelle acque del Corno d’Africa. Insomma, da Gaza al Sud Libano fino al Mar Rosso è l’intero Medio Oriente ad essere palcoscenico di un mosaico di negoziati, segreti e vulnerabili, tesi a costruire nuove forme di coesistenza in una delle regioni più incandescenti del Pianeta. E possono esserci pochi dubbi sul fatto che il motore di ogni negoziato in corso è l’amministrazione Biden, impegnata con più alleati e su più tavoli, a neutralizzare la strategia dell’Iran, che invece punta sui conflitti armati per perseguire la propria egemonia sul Medio Oriente.
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