Riprendiamo da LIBERO di oggi 15/12/2023, a pag.1, con il titolo "Segnale forte dell’Europa sull’Ucraina Adesso però non si deve mollare Israele", l'editoriale di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
Per carità, non è mai il caso di farsi illusioni eccessive. Però forse, dopo la sorprendente giornata di ieri, un filo di speranza c’è: ancora c’è la possibilità, attraverso un po’ di buona politica, di evitare il peggio.
E quale sarebbe il peggio - oggi - per l’Occidente complessivamente inteso? Mollare l’Ucraina e contemporaneamente mollare anche Israele.
Intendiamoci bene: dal punto di vista strettamente militare, stiamo parlando di due situazioni opposte e non comparabili. Infatti, in termini di armi e risorse, per sua sfortuna (benché senza colpa), Kiev ha ancora bisogno di tutto per conquistare una “pace buona”, cioè a condizioni ragionevoli, evitando l’umiliazione di vedere totalmente premiata l’aggressione russa. Mentre Gerusalemme, per sua antica forza e merito, non ha bisogno di nulla, nel senso che può difendersi dal terrore di Hamas e ottenere una schiacciante prevalenza militare anche senza il sostegno occidentale, come del resto ha sempre fatto.
Ma sia gli ucraini che gli israeliani hanno assoluto bisogno di supporto politico, morale e mediatico. Beni rari e preziosi, importanti come e più delle armi in sé.
Sull’Ucraina l’inerzia Usa (purtroppo bipartisan) è ormai sempre più evidente. Quanto all’Ue, ieri è giunta una sorpresa positiva a suo modo clamorosa e tutt’altro che scontata - con il via libera del Consiglio europeo al negoziato per l’adesione di Kiev. È un primo segnale di grande importanza:l’Ucraina ha la drammatica necessità di uscire dalla guerra non solo con l’intesa meno peggiore possibile in termini territoriali, ma con l’offerta di almeno uno dei due percorsi astrattamente immaginabili (in primo luogo l’adesione all’Ue, appunto, considerando le difficoltà e i rischi ancora maggiori legati all’eventuale apertura dell’ombrello Nato).
La stessa prevedibile opposizione dell’ungherese Orban si è tradotta ieri in una posizione tutto sommato dialogante e costruttiva: l’uomo di Budapest ha infatti momentaneamente lasciato i lavori in modo concordato, pur mantenendo la sua opinione contraria. Alle latitudini italiane - se ci fosse un minimo di onestà intellettuale- si dovrebbe essere lieti del ruolo giocato da Giorgia Meloni per centrare questo risultato diplomatico. Ma figurarsi se i nostri antifascisti (in mancanza di fascismo) saranno disposti a riconoscerlo.
GLI SLOGAN
Quanto a Israele, le ultime giornate sono state assai meno incoraggianti: anche lasciando da parte le scatenate e quasi provocatorie posizioni anti-Gerusalemme dell’ineffabile Josef Borrell, ovunque (Ue, Onu, Usa) cresce il volume degli slogan a favore del “cessate il fuoco”, con Joe Biden in persona, palesemente non più in grado di controllare l’ala sinistra del suo partito, che giunge ad ammonire Israele sulla “perdita di sostegno internazionale”.
Dunque, secondo questa scuola di pensiero largamente maggioritaria, Israele dovrebbe fermarsi, mentre Hamas non è mai fatta oggetto di richieste di smettere di lanciare razzi e soprattutto di restituire gli ostaggi israeliani alla libertà e alle loro famiglie. Capite che, in una logica simile, il “cessate il fuoco” diverrebbe oggettivamente un assist a favore di Hamas e del terrorismo islamista. E non a caso Gerusalemme si guarda bene dal fermarsi, e fa bene. Ma ancora più grave- sempre dal punto di vista occidentale- è il fatto che troppi sembrino ancora non comprendere quale sia la posta in gioco complessiva, ben al di là di un lembo di terra ucraina o della durata e dell’estensione dell’operazione militare israeliana a Gaza. In gioco ci sono almeno tre elementi letteralmente decisivi, direi esistenziali. Primo: il messaggio, se non di resa, quanto meno di accondiscendenza che si consegnerebbe alle potenze autoritarie (Pechino, Mosca, Teheran). È come se dicessimo loro: ci siamo dimenticati cosa sia la “deterrenza”, cosa sia una supremazia militare occidentale così chiara da non poter nemmeno essere sfidata, e in ultima analisi siamo disposti a rimettere in discussione, più o meno a pezzi, l’intero ordine globale post 1945.
Secondo: il messaggio di abbandono che, neanche troppo subliminalmente, verrebbe consegnato alle prossime vittime, ai prossimi aggrediti (Taiwan?), tutti potenzialmente sacrificabili, o se volete- più ipocritamente - tutti difendibili ma solo fino a un certo punto.
POTENZE AUTORITARIE
Ma l’elemento ancora più grave sarebbe il terzo: rifiutarci di vedere che, nei prossimi cinque-dieci anni, in diversi teatri (Est Europa, Mediterraneo e Africa in primo luogo), avremo a che fare con numerose nuove tensioni, più o meno direttamente orchestrate-provocate-sfruttate dalle potenze autoritarie. Che si fa sin da ora? Ci si rifugia nella negazione del problema, come se la denial strategy impedisse alle cose di accadere? Simili agli struzzi, infiliamo la testa nella sabbia per non vedere? Sventoliamo preventivamente bandiere della pace? Ci rifugiamo in una visione irenica e irenistica delle cose che è ormai scopertamente contraddetta dalla realtà? Oppure recuperiamo - a partire dalla deterrenza - la cassetta degli attrezzi che ci consentì di prevalere nella Guerra Fredda? Una che se ne intendeva, la signora Thatcher, ebbe a dire nel 1988 che «il nostro modo di vivere, la nostra visione e tutto ciò che speriamo di raggiungere è garantito non dalla giustezza della nostra causa ma dalla forza della nostra difesa». Come spesso le capitava, aveva ragione. Naturalmente pochi la applaudirono, meno ancora la compresero. Siamo ancora lì. Ma intanto portiamo a casa il buon punto segnato ieri dal Consiglio europeo.
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