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La Stampa Rassegna Stampa
20.06.2003 Sharon mantiene la parola
guerra fra soldati e coloni per il primo avamposto rimosso

Testata: La Stampa
Data: 20 giugno 2003
Pagina: 8
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Il primo sgombero di Sharon. Ore di battaglia soldati-coloni»
Riportiamo il reportage di Fiamma Nirenstein pubblicato su La Stampa venerdì 20 giugno 2003.
Nulla e tutto, Mitzpeh Yitzhar è il primo avamposto importante dove coloni e soldati hanno fatto la guerra: nulla, in alto in mezzo alla Samaria, deserto e stoppie, ulivi in lontananza, giallo e pietre, qualche ciuffo di fiori rosa e celesti, tre o quattro prefabbricati e in tutto venti coloni residenti fissi; tutto, il popolo israeliano si muove e si scontra in nome della Road Map, due processioni dolenti e determinate, un migliaio di coloni provenienti a piedi da tutta la Giudea e la Samaria e oltre si arrampica verso l’alta collina in aiuto dei loro amici, e centinaia e centinaia di soldati arrivano da tutte le parti pronti allo scontro come in una guerra totale, carri armati, mezzi corazzati, bulldozer, ambulanze al seguito. Ma a mani nude, niente armi addosso o in pugno. Il solito mitra a bandoliera che il soldato non lascia nemmeno quando va a dormire, non c’è. La guerra civile non deve cominciare qui, questi sono gli ordini. Gli stessi ordini hanno ricevuto dai loro rabbini i ragazzi che pressano a grappolo i bulldozer coi loro corpi; non fosse per gli tzitzit, le frange bianche che escono da sotto le magliette slabbrate, e la kippà, il cappellino rituale, sembrano in genere membri di un agitato movimento di Verdi.
Ma lo scontro c’è e fa decine di feriti fra i soldati e i giovani coloni. Perché comunque la si metta, questa è una guerra: l’inaspettata guerra di Sharon contro una parte dei suoi elettori, e sgomberare Mitzpeh Ytzhar non è stata una scelta casuale. E’ come se da quell’altura Sharon mandasse a dire ai coloni: «Non ho paura di voi, quello che si deve fare si farà, se l’ho fatto qui posso farlo altrove». Qui infatti molti dei residenti e dei loro amici sono gente che non conosce compromesso, provengono dalla scuola religiosa della Tomba di Giuseppe, con l’esperienza di scontri diretti con i palestinesi, con morti e feriti, con la rabbia covata per la dissacrazione della Tomba violata; a 500 metri da Ytzhar stessa dove vivono cento famiglie, gli avamposti sulle vette guardano dall’alto il villaggio palestinese di Hawara, i cui abitanti sono responsabili negli anni della morte di diversi israeliani; e gli israeliani di Ytzhar hanno verso il villaggio un atteggiamento che induce l’esercito a proteggere i cittadini arabi.
Mitzpei Ytzhar è nel cuore della Samaria. Poco lontano Ofra, la madre degli insediamenti legali, poi Eli, e più in là Beit El, e Tapuah. Siamo al centro del problema, nel cuore degli insediamenti più antichi e della vita di quella che è ormai una enorme comunità di più di duecentomila persone, di cui molti alla terza generazione. L’avamposto controlla l’ingresso a una vallata segnata da decine di agguati mortali a civili e soldati israeliani, compreso quello in cui furono uccisi, in una sorta di tiro al piccione, in una gola, nove fra viaggiatori casuali e soldati di guardia.
Saliamo al mattino e la collina è completamente in fiamme, i campi sono stati bruciati per evitare che i soldati possano giungere fino ai prefabbricati e una grande tenda che raduna i volontari corsi in aiuto, si vedono per centinaia di metri le strisce di benzina rovesciata per terra che ardono i cespugli e le stoppie. Qualcuno con una pompa cerca di salvare dalle fiamme una vigna che deve essere stata curata per anni dagli stessi che oggi l’hanno incendiata. Per accedere alla montagna si passano una quantità di posti di blocco dove tutto sembra proibito, e si lascia l’auto dove comincia il fuoco. Si sale incontrando decine e decine di giovani coloni e centinaia di soldati che arrivano da ogni parte: «Sharon ci ha deluso - dicono i giovani - speriamo solo che sia una finta, che lo faccia per buttare fumo negli occhi agli americani, non possiamo credere che ci butti fuori così da casa nostra, con l’importanza strategica che ha la nostra postazione, con il terrorismo suicida che continua e continuerà. Questo è un luogo dove nessuno ha mai abitato al di fuori di noi, è la terra su cui Abramo portava a passeggiare i suoi bambini, ed ecco che ci vogliono sbattere via, come estranei. Oggi lui sgombera noi, domani i palestinesi sgombereranno lui da Gerusalemme». Così in coro parlano alla giornalista, eccitati, i vari Mordechai, Michael, Shlomo. Una macchina bruciata e rovesciata viene spostata dall’esercito, e poi una dopo l’altra, fino alla grande tenda, cominciano le barriere di pietre costruite nottetempo. Nelle prime ore hanno fermato i soldati, poi le ruspe le hanno spostate.
Quando si giunge in vetta, ai primi prefabbricati, si può vedere il cuore della strategia finora messa a punto dai coloni: da una parte, i giovani che si infilano sotto i carri armati e si sidedono dentro le ruspe, che si arrampicano sui tank finchè i soldati non li buttano di sotto, senza fargli male per quanto possono; ma la vera barriera sono le donne, quasi tutte giovanissime e con i loro bambini appesi al collo in marsupi colorati o seduti a schiere nelle carrozzine. Vanno vicino ai soldati, ragazzini rossi dal sole e dall’angoscia di dover combattere contro i loro connazionali e fratelli, offrono loro acqua e panini: «Ti prego - dice a Itzik una ragazza col suo piccolo - non puoi, non devi ubbidire agli ordini, è una dissacrazione del nome di Dio, noi cosa facciamo di male? Coltiviamo la terra dei nostri padri, la terra che ci è stata restituita dopo migliaia di anni; e davvero pensi che se mi mandi via di qui col mio bambino questo porterà la pace? Pensi che Hamas sarà contenta? Vuoi aiutare lo sceicco Yassin?».
I soldati hanno ricevuto ordini: conservano il silenzio, ogni tanto azzardano una parola di scusa. Un colono, mentre ci avviciniamo a un grappolo che sta cercando di salire su un mezzo corazzato in movimento e di fermarlo, si avventa contro di noi accusando i giornalisti di considerarli «solo dei pazzi fanatici: perché venite qui a vedere questo giardino zoologico, non siete più capaci di capire cos’è un ideale... E tu che sei una donna, non passare questa linea, qui i religiosi le donne non ce le vogliono». Altri vengono a difenderci, a molti non importa che la giornalista sia una donna. Presto i soldati, che vengono continuamente riforniti d’acqua, cominceranno a scendere sotto il sole dell’una del pomeriggio verso la tenda e le baracche. Là c’è la roccaforte: sangue dal naso, svenimenti, spintoni. Il popolo di Israele se le dà, i militari aprono le braccia per mostrare che sono senz’armi, ma l’aria sa di sangue, la polvere e il fumo puzzano e distruggono l’odore dei fiori rosa e azzurri e quello della liquirizia.
Ci sono alcuni deputati che nonostante siano teoricamente vincolati dalle decisioni del governo a seguire la Road Map e quindi a compiere questo e altri sgomberi, sono venuti a portare solidarietà ai loro elettori. Ma sono tre in tutto, e Pinchas Wallenstein, il capo della Moetzet Yesha, il Consiglio degli insediamenti, ha un bel ripetere con aria minacciosa: «Possono sgomberarci finché vogliono, tanto stanotte o domani ritorneremo». La realtà è che sui coloni cala un umore cupo, pensavano che la grande ondata di terrorismo avesse finalmente convinto tutti, e soprattutto il governo, a seguire la loro strada, quella della presenza sul territorio costi quel che costi. Non è andata così. Alcuni dei ragazzi piangono disperati per le botte, il fumo, la delusione. Ci sono anche molti soldati che non possono sopportare quello che stanno facendo. Anche alcuni di loro piangono. Tutti quanti hanno vent’anni e hanno affrontato quasi tre anni di funerali. Ma il monte arde, la tenda si sgonfia, domani arriva Colin Powell.
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