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La Stampa Rassegna Stampa
15.06.2003 Gli incubi di Barbara Spinelli
augurandoci che non siano altro

Testata: La Stampa
Data: 15 giugno 2003
Pagina: 1
Autore: Barbara Spinelli
Titolo: «L'incubo di un nuovo Sud Africa»
Ogni tanto, fra le prediche domenicali di Barbara Spinelli sulla Stampa, protagonista è Israele. Autrice del non dimenticato "Ebrei discolpatevi", la Spinelli paragona Israele al Sud Africa, e ci viene il dubbio che per lei non sia poi del tutto un incubo. Riportiamo interamente l'articolo, inserendo i nostri commenti.
NON è la prima volta che un negoziato di pace rischia di inabissarsi nel sangue, in Medio Oriente, e alcuni sembrano convinti che anche quest’ultimo tentativo americano, iniziato nel vertice di Aqaba il 4 giugno, sia destinato a fallire come tanti altri sforzi precedenti. Non sono concepibili mappe di pace, quando il terrorismo palestinese continua i suoi massacri di civili nelle strade israeliane e si ripromette anzi di moltiplicarli. Non è ancora tempo di pace, se il primo ministro Sharon disconosce la successione di Arafat fino a delegittimarla: l’uccisione di Abdel Aziz Rantisi, che ha preceduto l’attacco kamikaze a Gerusalemme di mercoledì, è un atto di dichiarata sfiducia verso il cambio di guida nell’amministrazione palestinese, e sembra congegnato per minare le intese di Aqaba. È come se Sharon si fosse alleato con l’estremismo palestinese, per dire che il nuovo premier Abu Mazen è un uomo di paglia, che il monopolio legale della violenza appartiene tuttora a Israele, e che ogni piano di pace è una chimera: per questo i governanti d’Israele hanno colpito con le proprie mani Rantisi, testa politica del gruppo terrorista Hamas, senza attendere che Abu Mazen cominciasse a comandare davvero in Palestina.

Sharon, secondo Spinelli, disconosce la successione di Arafat, cioè Abu Mazen, fino a delegittimarla. Strano, avremmo detto il contrario: Arafat, disconosce Abu Mazen e fa quanto può per delegittimarne il potere e l'autorità.
L'attacco a Rantisi poi, non mina le intese di Aqaba, semplicemente Sharon ha cercato di fare quello che a Abu Mazen non riesce: eliminare il terrorismo. Altro che sfiducia verso il cambio della guardia ! Verso Abu Mazen la fiducia ci sarebbe se lui potesse fare quello che si è impegnato a fare. Cosa che purtroppo non avviene a causa di Arafat, cheb sta già programmando il successore di Abu Mazen. Ma di tutto ciò la Spinelli non se accorge.

Tutto questo può apparire comprensibile, se lo sguardo si ferma sul breve periodo. Lo Stato israeliano non può non difendersi, quando le sue popolazioni sono minacciate. Non può far altro che quel che ha fatto per anni, e che oggi fa con la sicurezza di partecipare a una globale lotta contro il terrorismo mondiale: prima si colpisce l’avversario che medita la tua distruzione, poi quando verrà l’ora si negozieranno itinerari di pace. Questa è la dura legge della sopravvivenza, ripetono gli uomini di Sharon, e quando sono interrogati non esitano a dichiararsi totalmente solidali, in ciò, con la dottrina militare preventiva dell’amministrazione Bush. Non ha reagito così anche Washington, dopo l’11 settembre? La politica israeliana non è diversa da quella statunitense: per la pace c’è tempo, sembra dire a se stesso Sharon. Adesso tocca replicare con le armi al terrore, e se possibile prevenirlo alla maniera di Bush.
Invece non c’è quasi più tempo per Israele, e il paragone che i suoi dirigenti si ostinano a fare con l’America è non solo fuorviante ma letale. Gli Stati Uniti sopravviveranno come nazione al terrorismo: sono un’isola circondata da oceani, hanno spettacolari forze, dispongono di un sistema d’alleanze pericolante ma vasto. Possono anche permettersi fittizie guerre di civiltà. Non così Israele, che al conflitto con i palestinesi può anche non sopravvivere: che è appena una goccia dentro un mare di arabi, che non dispone di alleanze paragonabili a quella americana, e che è alle prese con una guerra dotata di radici locali incontrovertibili
Non poteva mancare la stoccata antiamericana "fittizie guerre di civiltà", così Spinelli si intasca il consenso noglobal-catto-pacifista.
Una guerra non tra ebrei e Islam radicale come pretende Sharon - una guerra globale di civiltà - ma una guerra concreta e pluridecennale tra israeliani e palestinesi.
Forse Israele non può ottenere la pace vera e propria, fintantoché i suoi cittadini saranno minacciati. Ma una via di mezzo esiste, tra guerra totale e accordo finale, ed è quella indicata su questo giornale da Abraham Yehoshua. È la via della separazione, da attuare al più presto e prima ancora che intervenga un’eventuale pace: «Non di un tracciato di pace c'è bisogno, ma di un tracciato di separazione», spiega lo scrittore: non di abbracci di riconciliazione, ma del reciproco e ufficiale riconoscimento di esistenze disgiunte. Se c’è un esercizio pericoloso, oggi, è quello di esercitarsi a fare gli americani: il tempo lavora in favore dei palestinesi, non degli israeliani. Questi ultimi presumono di avere una forza che non possiedono più, e sono nello sgradevole obbligo di non poter più dare tempo al tempo.

Dice bene Yehoshua, come dicono bene tanti intellettuali, occorre la separazione. Ma tra il dire e il fare occorre un piano. C'è la Road Map, preparata da un quartetto insospettabile, che Sharon e Mazen hanno accettato e che prevede la cessazione totale degli attentati. Che non avviene, anzi, che è ripartita in un crescendo mostruoso. Senza che Mazen e Dachlan abbiano il potere di fermarla. separarsi si, ma come, con il muro che gia Yehoshua si sugurava che vensse costrito ? E che poi,viste le critiche che ha suscitato, non l'ha mai più tirato in ballo ?
Sono i territori che hanno messo fine alla forza di Israele, e che l'hanno trasformato nel gigante malato, addirittura perdente, che esso è oggi. Yehoshua parla dei territori come di una droga, di cui gli estremisti israeliani e i coloni nei territori occupati non possono più fare a meno
Non è vero, Sharon ha affermato più volte, e ufficialmente, che Israele è pronto a smantellare tutti gli insediamenti illegittimi, a fare concessioni dolorose, a riconoscere, come scritto nella Road Map, la nascita di uno stato palestinese. Ma esige la sicurezza pe rIsraele. Spinelli questo problema non sfiora nemmeno. Che non le interessi ?
Una droga che accentua quello che viene definito il vizio mortale d’Israele: la sua tendenza a vivere fuori dell’ordine politico, indifferente agli eventi mutevoli della storia: «Per duemila anni il popolo ebreo non ha sperimentato alcun tipo di governo indipendente e l’anarchia ebraica, rafforzata da slogan del tipo "non esiste Israele se non secondo la Torah e la Torah è soggetta alla mia interpretazione", minaccia ora di destabilizzare le fondamenta del popolo israeliano» (Yehoshua, La Stampa, 12 giugno 2003).

Questa è letteratura, non analisi politica. Ingenuo (?) Yehoshua a far prevalere di sè lo scrittore, scorretta Spinelli a fare una citazione letteraria scambiandola per politica.
A partire da un certo punto i territori sono stati vissuti come una seconda fondazione di Israele, ed è questa fondazione che oggi fallisce, minacciando di trascinare con sé, nel baratro, Israele stessa e indirettamente perfino la diaspora.
Falso. La prova è che i territori NON furono mai dichiarati terra d'Israele ma semplicemente" territori amministrati".Quindi sempre pronti a qualsiasi trattiva. Come in effetti è avvenuto
Inizialmente non fu così, come spiega bene il geografo Elisha Efrat in un libro sull'occupazione uscito in Israele (Geografia dell'Occupazione, Carmel, 2002). Dopo il ‘67 non era intenzione israeliana di popolare le terre strappate agli aggressori della guerra dei sei giorni: l’intenzione era di bonificarle, di migliorarne le infrastrutture. Ma a partire dagli Anni Settanta vennero insediate colonie nella regione, e i coloni avevano in mente loro particolari progetti. C’era chi voleva applicare a proprio modo la legge religiosa, la Torah, e riprendere le terre di Giudea e Samaria che la Bibbia aveva attribuito al popolo eletto. C’erano i laici che volevano ripetere il gesto del ‘48 e tentare una seconda esperienza sionista di fondazione e colonizzazione: le storture dello Stato israeliano sarebbero state qui raddrizzate, il sionismo esaurito in patria sarebbe stato qui rigenerato. In ambedue i casi fu un piano messianico ad essere messo in opera, e questo piano è naufragato da tutti i punti di vista: religioso, politico, strategico, economico, demografico. Ne è venuta fuori una carta geografica assurda, che mette i brividi solo a guardarla: una Palestina coperta da migliaia di colonie, a pelle di leopardo, dove difficilmente potrà stabilirsi un’entità palestinese dotata di continuità territoriale. Un reticolato di strade collega tra loro colonie e avamposti più o meno legali, ma son strade che aggirano i villaggi palestinesi senza toccarli. Secondo Efrat, il 50-60 per cento della Giudea, della Samaria e di Gaza è praticamente posseduto da un manipolo di coloni, che rappresentano solo il 12 per cento della popolazione in Cisgiordania e lo 0,5 per cento a Gaza. Di 600 milioni di metri cubi d’acqua, a disposizione di Israele in Cisgiordania, solo un quinto va ai palestinesi. I coloni decisi a opporsi con le armi allo smantellamento sono circa 10 mila, scrive Efrat.
Il progetto di colonizzazione è fallito perché i territori sono sempre più simili al Sud Africa e sono dunque vicini all’esplosione. Un’infima minoranza regna su un’immensa maggioranza palestinese, animata ormai dal risentimento, e questa situazione di apartheid bellicoso non può che deteriorarsi, politicamente e soprattutto demograficamente: i palestinesi sono in espansione, gli israeliani regrediscono. La vera bomba che incombe su Israele è demografica, e la situazione non migliorerà se i palestinesi si batteranno per un ritorno di milioni di profughi nelle terre che Israele occupò nel ‘48. Se per quella data non vi sarà uno Stato palestinese, cui verrà chiesto di accoglierli e che l'Occidente aiuterà perché sia in grado di assolvere tale compito, Israele non esisterà più.
L’incubo sudafricano può inverarsi da un momento all’altro, nella vita israeliana. Verrà forse il momento in cui i palestinesi non si batteranno più per una separazione fra due Stati, e neppure si opporranno alla colonizzazione dei territori. Gli estremisti di Hamas e del Jihàd già agiscono di fatto in questa direzione. E ancor più esplicito è Michael Tarazi, consigliere dei negoziatori palestinesi: che Israele espanda le colonie - ha detto quest’ultimo - ed entro 10-20 anni i palestinesi rappresenteranno, nello Stato unitario israeliano e con il ritorno dei profughi, la stragrande maggioranza.
Libera Spinelli di citare gli autori che preferisce. Un po' come se scegliessimo uno storico di parte borbonica per descrivere il risorgimento italiano. Spinelli fa la stessa operazione. Come come la storia vista da parte dei borboni può contenere verita e menzogne parziali in parti eguali, così l'analisi che lei prende per buona al 100% non può convinecere un lettore che abbia senso critico. Per conoscere l'Italia del governo Berlusconi mi devo fidare di Furio colombo ?
A quel punto scatterà il modello Sud Africa, e anche i palestinesi invocheranno la regola aurea dell'uguaglianza democratica di fronte alla legge: una persona-un voto. A quel punto saranno i palestinesi ad avere la maggioranza, così come i neri l'hanno ottenuta in Sud Africa, e il dilemma sarà arduo per le democrazie liberali e per gli stessi Stati Uniti. Quel giorno non sarà più un israeliano a capo della grande Israele ma un palestinese, sostiene Tarazi. Questo è l’abisso in cui rischia di precipitare Israele, se permane lo status quo e non si procede al più presto a una separazione. E non è una minaccia remota.

Qui la Spinelli rivela il suo incubo (sogno?) con il paragone Sud Africa. Poteva aggiungere anche l'Algeria, già che c'era. La sua previsone potrebbe essere realistica solo nel caso in cui Israele intendesse annettere i territori amministrati. Cosa che non mai detto nè mai farà. Anzi, prima ci sarà uno stato palestinese meglio sarà per Israele. Uno stato però che non rappresnti un pericolo per lo stato ebraico. Sicurezza, capito Spinelli, SICUREZZA.
Bisogna certo difendersi dai terroristi, in questo Sharon ha ragione. Ma ha ancora più ragione quando ammette che non si può, alla lunga, occupare popoli che rifiutano l’occupante. E che c’è un nesso, tra quest’occupazione e i kamikaze palestinesi.
questa deve esserle sfuggita. Concordiamo. Spinelli,si rilegga queste sue righe e vedrà che dovrà modificare tutto il resto del suo articolo.
La lezione è amara ma toccherà apprenderla velocemente, prima che sia tardi: la fondazione di una nazione israeliana in terre abitate da arabi fu possibile nel ‘48, perché le circostanze - l'annientamento degli ebrei in Europa - erano eccezionali. Oggi tali circostanze non esistono più, ed è il motivo per cui quel gesto di fondazione e colonizzazione non può ripetersi una seconda volta, avvalendosi senza interruzione delle stesse ragioni d'un tempo. Se continuerà a esser ripetuto ne patiranno sia gli israeliani, sia gli ebrei fuori dei confini nazionali: ebrei di cui Israele è in parte responsabile, fin quando durerà il suo legame con la diaspora. Perché a svanire sarà lo Stato di Israele, e sarà il sogno di una terra rifugio che tutto intero l'ebraismo tiene segretamente in serbo per le sue ore più disperate.

Israele non fu fondato in terre occupate da arabi. Quelle terre si chiamavano Israele così come non si sono mai chiamati palestinesi solo gli arabi. Era anche il nome degli ebrei, che lì hanno sempre vissuto e che fin dalla metà dell'800 hanno cominciato a ricostruire il loro Stato. Ci sono riusciti con il riconoscimento dell'ONU nel 1948 e gli arabi avrebbero avuto anche loro uno stato se solo l'avessero accettato. Ma Spinelli certi fatti ama non ricordarli.
Preferisce sostenere che Israele è nato per via di "circostanze eccezionali", l'annientamento degli ebrei in Europa.
Non si preoccupi Spinelli delle "ore disperate" (incubo ?, sogno ?) che potranno addivenire agli ebrei. La lezione è stata appresa, e se per disgrazia qualcuno dovesse dimenticarsene, gli articoli come quelli che lei scrive su Israele aiutano a tenere la memoria in perenne esercizio.

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