Sulle strategie, la Road Map e il terrorismo Così la vede Bernard Lewis
Testata: La Stampa Data: 13 giugno 2003 Pagina: 2 Autore: Paolo Mastrolilli Titolo: «Lewis:»
Riportiamo l'intervista di Paolo Mastrolilli a Bernard Lewis pubblicata su La Stampa venerdì 13 giugno 2003. Più che una mappa per la pace questo mi sembra un campo minato». Non è una battuta, quella che il professore dell'università di Princeton Bernard Lewis fa a caldo quando gli chiediamo di commentare gli ultimi drammatici avvenimenti in Medio Oriente: «E' un campo minato - spiega il celebre studioso del mondo arabo - perché ci sono troppe questioni vitali ancora incerte, e quindi troppe insidie nascoste che minacciano la riuscita dell'iniziativa». Dall'11 settembre in poi, il presidente Bush ha dimostrato un'indiscutibile capacità di condurre la guerra. Prima in Afghanistan, e poi in Iraq, ha guidato due interventi che hanno avuto un successo rapido, provocando un numero di vittime relativamente basso rispetto alle dimensioni dei conflitti. Da questo punto di vista ha smentito i suoi critici più feroci nel giro di poche settimane. Le difficoltà però stanno emergendo nella fase che dovrebbe trarre i frutti geopolitici delle guerre, trasformandole in opportunità per portare la pace e la democrazia in Medio Oriente. E' un problema di tempi, di strategia o di casualità? «Voglio cominciare chiarendo che io condivido l'approccio dell'Amministrazione nei confronti della regione mediorientale, e i risultati non possono venire dalla sera alla mattina. Però è chiaro che sul terreno sono stati commessi degli errori». Una delle critiche originarie alla strategia del presidente Bush era che non si può costringere un Paese a diventare democratico a forza di bombe. Lei non la condivide? «In genere, quando mi fanno questa domanda rispondo che la strategia delle bombe ha funzionato con le potenze dell'Asse durante la Seconda guerra mondiale, e quindi potrebbe funzionare anche in Iraq, dove il partito Baath era sostanzialmente una formazione di stampo nazifascista». Eppure oggi in Iraq si continua a sparare quasi ogni giorno, e l'amministratore americano Paul Bremer ha rimandato a data da destinarsi la creazione del governo locale. Non le sembra un bilancio poco incoraggiante, anche se la guerra è finita solo da due mesi? «Non c'è dubbio che sul terreno sono stati commessi degli errori nella gestione del dopoguerra. La verità, però, è che alla radice delle critiche verso l'approccio americano alla stabilizzazione dell'Iraq c'è un profondo pregiudizio antiarabo: la convinzione che quei popoli, in generale, non possano costruire la democrazia. Il partito Baath aveva tutte le caratteristiche di un movimento fascista, e proprio per questo era riuscito a tenere sotto controllo la popolazione. Ma dire che dopo la sua caduta, anche se è avvenuta tramite la guerra, gli iracheni non saranno capaci di vivere secondo le regole democratiche è come sostenere che l'unica soluzione per la stabilità del Medio Oriente è assicurarsi che vadano al potere dei dittatori amici. Non è questa la cultura, la tradizione e la natura degli arabi e dei musulmani». Passiamo al conflitto tra israeliani e palestinesi. Perché dice che la Road Map le sembra un campo minato? «Perché le ragioni della guerra, e quindi le questioni politiche da affrontare per fermarla, sono molto dettagliate e persino minuziose. Cercare di risolvere il problema con un approccio basato solo sui principi generali significa esporsi alle mille trappole nascoste nei particolari». Quindi l'amministrazione Bush avrebbe preparato bene le mosse strategiche necessarie a riportare le parti al tavolo della trattativa, ma poi avrebbe peccato di superficialità nella preparazione del negoziato? «Almeno per ora, la Road Map è un campo minato. Anche qui, però, bisogna porsi una domanda chiave: su cosa stiamo trattando? Sulla creazione di due Stati autonomi, indipendenti e vivibili nella pace e nella sicurezza, oppure sulla dissoluzione di Israele? Se l'oggetto della discussione è il primo, cioè le dimensioni dello Stato ebraico, c'è speranza, perché si può trovare una soluzione pratica. La Germania e la Francia, ad esempio, combattevano per l'Alsazia e la Lorena, ma non mettevano in discussione il reciproco diritto di esistere. Se invece l'obiettvo è il secondo è inutile discutere, perché né Israele né qualunque altro Paese sarebbe disposto a negoziare la propria fine. Quando parlano in inglese, o comunque con gli occidentali, i leader palestinesi dicono di condividere la prima visione, ma quando parlano agli arabi sostengono la seconda. E' una duplicità che secondo me si potrà risolvere col tempo, quando la democratizzazione dei Paesi arabi avrà fatto progressi. Nel breve periodo, però, non sono ottimista». C'è qualcosa che Bush dovrebbe fare per accelerare la soluzione? «Certo, bonificare la Road Map dai campi minati. Ma aspettarsi un successo a breve è irrealistico». Invitiamo i lettori di informazionecorretta.com ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.