domenica 24 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Repubblica Rassegna Stampa
13.11.2023 La doppia sfida di Netanyahu
Commento di Enrico Franceschini

Testata: La Repubblica
Data: 13 novembre 2023
Pagina: 4
Autore: Enrico Franceschini
Titolo: «Guerra ad Hamas, no ad Abu Mazen la doppia sfida di Netanyahu»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 13/11/2023, a pag. 4, la cronaca di Enrico Franceschini dal titolo 'Guerra ad Hamas, no ad Abu Mazen la doppia sfida di Netanyahu'.

ENRICO FRANCESCHINI | Cristofariphoto
 Enrico Franceschini

Sono un agente segreto, vi stiamo per bombardare

«Abbiamo cominciato a parlare in arabo con Hamas», dice una scritta in ebraico, alle spalle di un soldato israeliano, su un muro di Gaza. La foto diffusa da Gerusalemme è la classica immagine che vale mille parole. Aiuta a capire un elemento chiave della strategia di Benjamin Netanyahu: la volontà dello Stato ebraico di ricostruire il potere di dissuasione, quella deterrenza che dovrebbe impedire ai nemici di attaccare, messa drammaticamente in crisi dal massacro di Hamas del mese scorso. Parlare “in arabo” è una metafora: significa parlare la stessa lingua di Hamas, il linguaggio della forza. Cioè trasmettere un messaggio, ad Hamas e a tutti gli avversari di Israele: che il prezzo di un attacco è esorbitante. Così alto che l’attacco del 7 ottobre dovrà servire per sempre da monito: affinché nessuno ripeta più qualcosa del genere. Come ha mandato a dire il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant agli Hezbollah libanesi: se gli Hezbollah allargheranno il conflitto, Israele farà a Beirut quello che sta facendo a Gaza. E gli Hezbollah per ora non lo hanno allargato. Questo spiega perché il premier israeliano sembra indifferente alle critiche di Joe Biden («ci sono troppi morti palestinesi»), alle richieste di cessate il fuoco di Emmanuel Macron, alle accuse dell’Onu e a centinaia di migliaia di manifestanti pro-Palestina nelle strade di Londra. Netanyahu continua a dire che la reazione militare proseguirà fino alla realizzazione degli obiettivi e ammonisce che non potrà essere l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) a governare Gaza al termine della guerra, come avevano proposto gli Stati Uniti, se il presidente dell’Anp Abu Mazen, più di un mese dopo il massacro del 7 ottobre, non ha ancora condannato Hamas. Chi la governerà, allora? Israele non manifesta l’intenzione di rioccupare Gaza a lungo termine. Forse una forza internazionale. Forse una nuova leadership palestinese: lo stesso Biden ha parlato di una Anp “rinnovata” per il futuro di Gaza e Cisgiordania. L’incertezza spinge alcuni commentatori a pensare che in realtà Netanyahu non abbia alcuna strategia, né per la guerra, né per il dopoguerra di Gaza. È un’ipotesi sulle sue intenzioni: temporeggiare. Finché a Gaza si combatte, mantiene il posto e rimanda la resa dei conti sulle responsabilità per quanto è accaduto. Ma una seconda ipotesi è che un piano ce l’abbia, in modo da rimanere al potere dopo la guerra, anche per farsene scudo nel processo per corruzione che lo attende. Per sperare di riabilitarsi davanti all’opinione pubblica nazionale, il primo ministro deve mantenere tre promesse: smantellare Hamas, liberare gli ostaggi e ristabilire il potere di dissuasione. Perciò avrebbe adottato una linea dura, durissima, nel solco di due premier del passato del suo stesso partito, Begin e Shamir. Il primo dei quali, però, in seguito seppe fare la pace con l’Egitto: perché talvolta, in Medio Oriente, dalla forza nasce la trattativa. E la terza ipotesi è che la strategia di Israele non sia più Netanyahu da solo a deciderla, bensì il “gabinetto di guerra”. Il pr emier è uno dei tre membri del gabinetto ristretto, insieme al ministro della Difesa Gallant e all’ex-generale Benny Gantz, leader del partito di centro entrato in un governo di unità nazionale per affrontare la sfida senza precedenti di Hamas. Quest’ultimo, pronosticato come il prossimo premier dai sondaggi, secondo i quali è inevitabile che prima o poi Netanyahu si dimetta, avrebbe tutto da perdere se la guerra finisce male o si guasta il rapporto con Washington, l’alleato più importante di Gerusalemme. Naturalmente un conto è quel che Biden dice in pubblico, per affrontare il calo di consensi in vista delle presidenziali 2024, un conto quel che dice in privato: per cui è possibile che Israele abbia ancora tempo per realizzare i suoi obiettivi a Gaza. Non un tempo infinito, certo. Un’altra dichiarazione di questi giorni del ministro della Difesa Gallant, tuttavia, esprime quella che finora sembra la strategia di Netanyahu, del gabinetto di guerra, dell’intero Stato ebraico: la sfida odierna è così grave che «Israele ascolta gli amici, ma decide da sola».

Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante

rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT