Obama responsabile del caos Commento di Pietro Senaldi
Testata: Libero Data: 06 novembre 2023 Pagina: 7 Autore: Pietro Senaldi Titolo: «L'ex presidente che ha aperto il caos»
Riprendiamo da LIBERO di oggi, 06/11/2023, a pag.7, con il titolo 'L'ex presidente che ha aperto il caos' il commento di Pietro Senaldi.
Pietro Senaldi
Barack Obama
Serve un ulteriore sforzo, mister President. Qualcosa di personale, che arrivi dal cuore e non dalla testa; o quantomeno dalla coscienza. Barack Hussein Obama, un destino nel nome, casinista e più vicino all’Oriente, che alla fine del suo regno alla Casa Bianca si è ritrovato più forte, piuttosto che all’Occidente, di cui pure è stato il capo per otto anni. Invitato a discutere dell’attuale disastro in Medio Oriente, l’ex presidente degli Stati Uniti ha sentenziato che il punto di partenza dev’essere che «nessuno ha le mani pulite» e che «tentare di mantenere la propria innocenza morale non risolverà il problema». Quale, dei tanti? I due fondamentali li indica anche lui: oggi «a Gaza stanno morendo anche persone che non c’entrano con Hamas» e malgrado oltre duemila annidi storia di persecuzione del popolo ebraico ma che «la follia dell’anti-semitismo viene spesso ignorata». Con l’aggravante che adesso, anche nell’America più obamiana che ci sia, l’università di Harvard, l’anti-semitismo sta riesplodendo con una violenza che ricorda i periodi più bui del secolo scorso. E allora, se davvero vuole dare una mano a salvare il salvabile, partendo dalla presa di coscienza della sua “complessità”, come lui stesso ammette, l’ex presidente deve partire dal riconoscere le proprie di colpe, perché se è vero che nessuno ha le mani pulite, è altrettanto vero che era lui ad avere le mani sui comandi negli anni decisivi della storia recente, dei cui errori paghiamo il prezzo oggi. Obama vince le elezioni a sorpresa, esattamente quindici anni fa, bruciando il vecchio e stanco candidato repubblicano, l’eroe di guerra John McCain. Lo deve alla sua capacità di usare internet in campagna elettorale, quella stessa rete su cui oggi punta il dito, ammonendo a «evitare l’attivismo da social» e al fallimento, due mesi prima, della banca d’affari Lehman Brothers, vittima sacrificale del sistema capitalistico americano che sostituì come motore di ricchezza nazionale la produzione industriale con la speculazione finanziaria. Il processo lo avviò Bill Clinton, altro presidente democratico, ma gli americani lo misero in conto a chi governava, Bush figlio. Baciato dalla fortuna, incassò subito un premio Nobel per la Pace alla fiducia, senza aver preso neppure una decisione, assegnatogli probabilmente perché era il primo presidente nero degli States e pertanto si pensava sarebbe stato più aperto al Sud del mondo. Durante la sua lunga permanenza alla Casa Bianca, Obama ha provato a combattere la lobby delle armi, che consente a chiunque negli Usa di comprare un mitragliatore e scaricarlo nelle scuole, e a introdurre un minimo di servizio sanitario pubblico. Ha fallito su entrambi i fronti, tant’è che oggi negli States circolano più armi rispetto a quando Barack si insediò e curarsi è molto più caro. QUALE EREDITÀ Non sono queste però le principali colpe di Obama; è sulla politica estera che l’ex presidente va messo alla sbarra ed è lì che sarebbe opportuno si battesse il petto pubblicamente, con auto-accuse specifiche, non con il facile bla-bla dell’altra sera, inscenato con tono grave e pensoso. Partiamo dall’eredità culturale che Obama ha lasciato. Primo nero alla Casa Bianca, avrebbe potuto finalmente risolvere la questione razziale, pacificare il Paese, sciogliere nodi e contraddizioni della società più multi-etnica al mondo. Ha fatto l’opposto. Ha posto le basi perla cancel culture e il movimento black lives matter, che sono poi i pilastri ideologici del declino americano. Ha trasformato una nazione orgogliosa e unita dal proprio sentimento di potenza e dal sentirsi in missione per conto di Dio per governare il mondo in un Paese attanagliato dai rimorsi, in autoanalisi, presuntuosamente convinto di essere all’origine dei mali del pianeta e di aver fatto torto a tutti, dagli africani ai pellerossa, dai sudamericani ai cinesi. Se oggi gli Stati Uniti sono una terra regredita nella cultura, nella morale e diplomaticamente, attaccata solo ai propri tornaconti economici, è per colpa di Barack e signora. Da questa trasformazione culturale che ha partorito un aborto derivano tutti gli errori e orrori in politica estera. Compreso il tradimento dell’Europa, l’alleato di sempre. Fino a Bush junior, il Vecchio Continente era stato l’interlocutore principale di Washington. La prima mossa di Barack fu togliergli centralità, anteponendogli il rapporto con la Cina, da cui l’America non ha cavato ancora un ragno dal buco. Se Londra ha lasciato la Ue e la Germania ha stretto i rapporti con Mosca, fino a chiamarsi una guerra commerciale con l’America è perché la presidenza di Obama ha rotto ogni equilibrio tra le due sponde dell’Atlantico. Da lì il resto, con la pretesa di impostare una nuova politica in Medio Oriente e in Nord Africa a prescindere dall’interlocutore europeo, trattato sulla base delle simpatie personali verso i singoli leader piuttosto che come blocco unico, e inseguendo miti globalisti e cercando di trapiantare valori e schemi occidentali su dittature arabe. Vittima sacrificale principale di questo andazzo fu l’Italia, come ammise l’ex ministro del Tesoro americano, Timothy Geithner. Obama era considerato dagli stessi europei così suggestionabile che funzionari Ue si permisero di chiedergli una mano nel complotto per far cadere Silvio Berlusconi dopo che, pochi mesi prima, il leader americano scatenò la guerra in Libia contro Gheddafi, sconsigliata dal Cavaliere, che costò la vita al suo ambasciatore a Tripoli e gettò il Paese nel caso, dove è ancora oggi. Le “primavere arabe”, di cui la campagna di Libia è solo un capitolo, furono l’inspiegabile delirio visionario di Obama, che pensò di poter cambiare il mondo solo con la forza della propria narrazione. Nel luglio 2009, nel discorso del Cairo, annunciò una nuova era nei rapporti tra Occidente e Islam. Mai più guerre di religione. Poi il presidente tornò negli Usa. Tempo tre anni e tra Siria e Iraq nacque lo Stato teocratico dell’Isis, con decapitazioni di occidentali e di islamici ritenuti non abbastanza credenti. Nel frattempo scoppiarono rivolte in svariati Paesi del Nord Africa e quello che oggi sta meglio è l’Egitto, nelle mani di un duro dittatore. Obama buttò un fiammifero in una polveriera senza avere l’estintore né un piano per gestire l’incendio e il dopo rogo. L’uomo è abituato a volare alto sui propri errori. Fa un disastro ed è già altrove. Il dramma israeliano e palestinese, sul quale oggi riflette, è stato ignorato dal suo doppio mandato presidenziale. Anzi, sarebbe più corretto sostenere che, inseguendo contro il parere del suo corpo diplomatico per otto anni buoni rapporti con l’Iran senza riuscire a instaurarli, Obama ha posto le basi della crisi attuale. Ha lasciato la Casa Bianca non prima di togliere le sanzioni all’Iran, che non ha mai smesso di portare avanti le sue ricerche per le armi nucleari, limitandosi a raccomandare al regime degli ayatollah di aprire una nuova fase. Oggi il Paese guida la commissione Onu per i Diritti Umani ma ammazza in strada gli studenti che protestano e le studentesse che portano male il velo. DEBOLEZZA DEMOCRATICA Molto meglio del premio Nobel per il Medio Oriente fece il suo successore, Donald Trump, meno retorico e più spiccio. Se l’Iran e Hamas hanno attaccato Israele, è stato per approfittare di un’altra amministrazione democratica Usa, per giunta debole perché in scadenza, per sabotare il processo di distensione nell’area avviato nel 2020 con il Trattato di Abramo, il primo accordo diplomatico tra Israele e un Paese arabo, nel caso gli Emirati, da decenni, patrocinato dall’amministrazione statunitense. Ma anche la sconfitta dello Stato Islamico, con la ripresa del potere su tutta la Siria da parte del dittatore Bashar al-Assad, si deve alle capacità diplomatiche di Mike Pompeo e di Trump, capaci di dialogare con la Russia di Putin, prima che invadesse l’Ucraina, per la sconfitta dei tagliagole islamici ai quali Obama di fatto regalò due Paesi pur di ridurre l’influenza di Mosca sulla regione. Oggi Trump è tornato a sognare la Casa Bianca e dichiara che, in caso di sua vittoria, la guerra in Ucraina finirà. Gli analisti a tesi sosterranno che è una prova delle sue relazioni pericolose con Putin. I fatti dicono però che i russi hanno annesso la Crimea nel 2014 senza che Obama facesse alcunché, e hanno scatenato l’offensiva contro Kiev solo dopo che il presidente Biden, già vice di Barack per otto anni, smobilitò i marines dall’Afghanistan. Si attendono, per la prossima crisi di Taiwan, che Pechino vorrebbe riannettersi entro il 2028, nuove dichiarazioni dell’ex presidente Obama, con magari ulteriori generiche assunzioni di colpa collettive. Vittima di sindrome cinese, Barack fin dal primo momento del suo mandato ha puntato tutto su un asse con l’Estremo Oriente che non è mai riuscito a costruire perché l’errore stava nella decisione, non nei tentativi. Chiunque si siederà nello studio ovale l’anno prossimo, avrà anche questa grana da gestire di cui ringraziare il premio Nobel.
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