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israele.net Rassegna Stampa
18.10.2023 Hamas non ha ancora capito la profondità della determinazione degli israeliani
Analisi di Haviv Rettig Gur, da Israele.net

Testata: israele.net
Data: 18 ottobre 2023
Pagina: 1
Autore: Haviv Rettig Gur
Titolo: «Hamas non ha ancora capito la profondità della determinazione degli israeliani»
Hamas non ha ancora capito la profondità della determinazione degli israeliani
Analisi di Haviv Rettig Gur, da Israele.net

Haviv Rettig Gur on the legality of settlements | The Times of Israel
Haviv Rettig Gur

Hamas non ha ancora capito la profondità della determinazione degli  israeliani - Israele.net - Israele.net
Alcuni degli ostaggi di Hamas


È difficile, dopo il massacro del 7 ottobre, considerare con freddezza la strategia e il pensiero palestinese. Non c’è israeliano che non sia toccato, nessuno che non abbia dei famigliari o degli amici che stanno cercando di riprendersi dall’aggressione di Hamas, nessuno, compreso chi scrive, che non sia sopraffatto dall’ansia per parenti o vicini che ora sono chiamati alla guerra. Eppure è necessario. È necessario comprendere il nemico, la sequenza della razionalizzazione e le attitudini mentali che lo hanno prodotto e hanno plasmato la sua strategia di brutalità. Quel nemico non è il popolo palestinese, ovviamente, anche se tra i palestinesi è diffuso il sostegno agli attentati terroristici. Il nemico non è nemmeno esattamente Hamas, anche se Hamas ne fa parte. Il nemico è la teoria palestinese sugli israeliani, quella che a molti fa apparire la violenza dispiegata il 7 ottobre come un passo razionale sulla strada per la liberazione anziché, come la giudicano gli israeliani, l’ennesimo passo di una lunga serie di disastri che la causa palestinese di è auto-inflitta. Il massacro del 7 ottobre non è un caso isolato nella lunga storia di brutalità di Hamas: ne è l’apoteosi. E’ ciò che Hamas farebbe sempre, se potesse. Improvvisamente, in quel sabato lugubre, ha scoperto che poteva e l’ha fatto. Ma l’incredibile ferocia mostrata dai terroristi non significa che il massacro sia stato un atto emotivo. Raramente il terrorismo palestinese è caotico ed emotivamente guidato. Gli esempi più terrificanti, gli attentati suicidi del passato o la carneficina e i rapimenti in massa visti sabato, sono atti attentamente pianificati e deliberati. La strategia palestinese di terrorizzare i civili israeliani è antica, ben più antica della conquista israeliana di Cisgiordania e Gaza nel 1967. Quando l’Olp venne fondata nel 1964 con l’obiettivo di scacciare gli ebrei dal paese, la Cisgiordania era ancora controllata dalla Giordania e la striscia di Gaza dall’Egitto. L’Olp adottò il terrorismo come strategia fondamentale per la liberazione palestinese non guidata dalla rabbia, ma perché aveva appena assistito al sorprendente successo del Fronte di Liberazione Nazionale algerino nell’utilizzare il terrorismo per cacciare i francesi dall’Algeria nel 1962. E risale ancora più indietro. La violenza organizzata palestinese contro gli ebrei nel 1920, 1929 (fine della pluri-secolare comunità ebraica di Hebron ndr), la cosiddetta rivolta araba del 1936-39 seguivano tutte la stessa teoria di base: la comunità degli ebrei è un sistema politico artificiale e senza radici, asportabile mediante il ricorso a una violenza insistita; pertanto, per rimuovere gli ebrei si deve impiegare una violenza continua. Questa visione palestinese degli israeliani viene insegnata ai bambini palestinesi come la verità fondamentale della lotta palestinese. La contrapposizione tra la Palestina “radicata” e l’Israele “artificiale” è uno dei pilastri principali dell’identità palestinese. Le conseguenze di questa visione e di questa strategia di lunga data sono state a dir poco devastanti per i palestinesi. I sostenitori della causa palestinese in Occidente, anche quando sono sconcertati dalle immagini di genitori che giacciono assassinati davanti ai loro figli o di cadaveri di neonati bruciati, a difesa di Hamas pongono la semplice domanda: “Cosa faresti se ti trovassi in una situazione simile con decenni di occupazione israeliana?”. Le politiche di Israele verso Cisgiordania e Gaza, e il dolore e le ingiustizie che ne derivano – sostengono costoro – sono la causa del genere di odio dippiegato il 7 ottobre. Il problema per i palestinesi – ed è un problema con immense conseguenze per loro – è che la stragrande maggioranza degli israeliani non la vede affatto così ed è convinta che Hamas avrebbe agito allo stesso modo anche se l’occupazione fosse finita vent’anni fa. Questa convinzione, che agli estranei può sembrare auto-giustificatoria, in realtà è radicata in una lunga esperienza profondamente dolorosa. L’autunno dell’anno 2000 vide l’inizio di un’ondata di circa 140 attentati suicidi nelle città e nei villaggi israeliani che uccise nonne e bambini sugli autobus e nelle pizzerie, e che scacciò la sinistra politica dal potere in modo così drastico che una generazione dopo non si è ancora ripresa. L’effetto devastante di quelle stragi di massa non è dato solo dallo shock e dal trauma degli attentati. Era anche il loro momento. Nel 2000, il processo di pace non aveva ancora conosciuto due decenni di stagnazione. Nessun partito di estrema destra faceva parte della coalizione di governo. Porre fine all’occupazione era un’idea che aveva prevalso alle elezioni. A quanto risulta, i negoziatori a Camp David stavano parlando di una sovranità condivisa israelo-palestinese sul Monte del Tempio (oltre che di uno stato palestinese a fianco di Israele ndr). Non c’erano soldati israeliani in nessuna città o villaggio palestinese – erano stati ritirati nei tre anni precedenti – e i redditi e i tassi di istruzione universitaria palestinesi erano in aumento. Le cose sembravano andare a posto. La pace, pensavano molti israeliani, era imminente. Per arrivare a quel punto, la sinistra politica aveva anche combattuto l’equivalente di una guerra civile politica interna, aveva visto il suo leader assassinato, aveva ottenuto una vittoria conquistata a fatica nelle elezioni del 1999 (elezione di Ehud Barak ndr) con il mandato di portare a termine l’opera di pacificazione. E il risultato dei suoi sforzi fu l’aggressione palestinese più raccapricciante e prolungata contro i civili israeliani nella storia del paese. Dunque, cos’era quella massiccia e prolungata ondata terroristica? Le spiegazioni date dai palestinesi non fecero altro che aumentare la rabbia. Esponenti palestinesi andavano alla televisione israeliana a dire agli israeliani che colpevole era la visita al Monte del Tempio fatta dall’allora leader dell’opposizione Ariel Sharon poco prima dello scoppio delle violenze. Per la sinistra israeliana era peggio che nessuna spiegazione. Equivaleva a dire agli israeliani di sinistra che tutte le loro lotte e sacrifici per la pace poggiavano su poco o niente e venivano demoliti dal primo gesto di postura politica di destra che i palestinesi trovavano sgradevole. Quell’esplosione di stragi, questo significava la spiegazione palestinese, era inevitabile. Successivamente gli intellettuali palestinesi cercarono di dare risposte un po’ migliori, come l’idea che la violenza fosse iniziata come una rivolta interna palestinese contro il regime sempre più tirannico di Yasser Arafat a Ramallah, una sorta di presagio della “primavera araba” del 2011, e che sia stata rapidamente deviata da uno spaventato Arafat in una campagna di terrorismo che prendesse di mira i civili israeliani. Ma in mezzo alle bombe che scoppiavano, pochi israeliani avevano tempo e voglia di prendere in considerazione tali contorsioni. Ai loro occhi pareva che tutti i palestinesi si fossero mobilitati nella campagna stragista. Per reclutare centinaia di attentatori suicidi (circa 140 riuscirono a superare i servizi di sicurezza israeliani; un numero molto maggiore ci provò o progettò di farlo) sono necessarie un’infrastruttura di reclutamento, una dirigenza che garantisca avallo religioso e sociale per gli attentati, reti di rifornimento, laboratori e ingegneri per produrre gli ordigni, un apparato di intelligence di base per aiutare gli attentatori a oltrepassare la sicurezza israeliana, insieme a conti bancari, covi ecc. E per cosa? Questa domanda tormenta e mette in crisi la sinistra israeliana da una generazione. Un ritiro israeliano dalla Cisgiordania avrebbe evitato l’attentato di Hamas del 7 ottobre? Gli israeliani, che vivono ancora con lo spettro di quel trauma di vent’anni fa, non la pensano così. Sono veramente e sinceramente convinti, compresi elettori liberal, che un simile ritiro non avrebbe fatto altro che dare vita a un sistema politico terroristico ancora più grande, capace di scatenare una carneficine ancora più vasta. E questa convinzione israeliana è il principale problema strategico dei palestinesi, anche se né i loro capi né i loro sostenitori all’estero sono disposti a riconoscerlo. Questa convinzione rende immuni gli israeliani dalle pressioni esterne. Se la risposta della politica palestinese al processo di pace di Oslo sono state le stragi di civili israeliani, se la risposta della politica palestinese alla stagnazione del processo di pace sotto Benjamin Netanyahu è stata una carneficina di civili israeliani, allora le politiche israeliane non sono la causa dei massacri palestinesi di civili israeliani. Gli attivisti stranieri minacciano di boicottare gli israeliani se non lasciano la Cisgiordania, ma Hamas minaccia gli israeliani di assassinio da qualsiasi territorio si ritirino. L’argomento di Hamas è più forte. Il punto non è se questa esperienza israeliana sia la verità storica oggettiva e completa. Il punto è che la stragrande maggioranza dell’opinione prevalente fra gli ebrei israeliani ne è convinta, e questa convinzione è forte e radicata in un’esperienza intrisa di sangue. E ha reso gli israeliani immuni sia dalle pressioni economiche straniere che dalla violenza palestinese. Nella testa degli israeliani, il movimento nazionale palestinese sembra lavorare contro se stesso. Non c’è cambiamento che la campagna globale per la Palestina possa indurre nella mente degli israeliani che la ferocia di Hamas non possa poi annullare. Poi è arrivato quel sabato, e la fine dei dubbi degli israeliani. Per un momento Israele ha abbassato la guardia, Hamas ha avuto la libertà di attuare le sue intenzioni e lo ha fatto con una chiarezza e determinazione folgoranti. Per gli israeliani è del tutto ovvio che la strategia brutale di Hamas non può liberare i palestinesi, quindi quella violenza non può essere spiegata come uno sforzo per la liberazione. Né Hamas si preoccupa di articolare le sue ragioni strategiche agli israeliani, come l’FLN algerino faceva un tempo così chiaramente con i francesi. Hamas impone agli israeliani di fuggire o morire, ma non sa spiegare dove dovrebbero fuggire. Ora gli israeliani sono convinti che il massacro del 7 ottobre, nella sua enormità e sconcertante crudeltà e soprattutto nella gioia con cui è stato perpetrato, non sia stato un errore di calcolo palestinese, perché l’indipendenza palestinese non era il suo obiettivo. L’obiettivo del 7 ottobre, come dell’autunno del 2000, è semplicemente la completa eliminazione degli ebrei da questa terra. Con la chiarezza arriva la chiusura. Gli israeliani sono uniti come mai prima d’ora, e non solo di fronte agli orrori perpetrati da Hamas. Il loro interrogativo trova finalmente una risposta. La ferocia che una volta consideravano un interrogativo si è rivelata essere la risposta: lo scopo e il fine di gran parte della politica palestinese. Si possono cercare le radici ideologiche della brutale strategia di Hamas nei movimenti di decolonizzazione del XX secolo o nelle teologie del rinnovamento islamico. Ma quella storia è solo un orpello sullo fondo rispetto al punto essenziale: che si tratta di una ferocia che esplode tanto contro i processi di pace quanto contro le minacce di annessione. Nessuna pace e nessun ritiro soddisferanno questo impulso né garantiranno agli ebrei israeliani la sicurezza dal genere di odio selvaggio e gioioso dispiegato il 7 ottobre. E adesso quella ferocia si è resa troppo pericolosa per essere tollerata. Hamas non sembra ancora rendersi conto di quanto sia profonda la determinazione dell’opinione pubblica israeliana. L’unica strategia di sopravvivenza di Hamas sembra essere quella di costringere le Forze di Difesa israeliane a infliggere a Gaza un tributo di civili così alto da spingere il mondo a chiedere di fermare la macchina da guerra israeliana. Ma gli israeliani resteranno sconvolti dalle immagini del 7 ottobre per molto tempo ancora. Adesso hanno la loro risposta, e da essa scaturisce una chiarezza di intenti che è mancata negli ultimi tre decenni. La macchina da guerra israeliana sarà implacabile. Hamas non sopravvivrà. Una tragedia incombe su Gaza, aggravata dalla lunga curva di apprendimento necessaria a Hamas per comprendere la profondità della risolutezza israeliana. Hamas ha spogliato Israele di ogni altro interesse che non sia quello di distruggerla. Nella testa degli israeliani, Hamas commetterà qualsiasi brutalità sarà in grado commettere. Quindi non le può consentire di commettere mai più alcun atto. E alla fine di questo lungo e tetro percorso, questo è forse l’unico barlume di ottimismo. Quando Hamas sarà distrutta, Israele avrà finalmente liberato la causa palestinese dalla ferocia senza fondo dei suoi più ferventi praticanti. (…) Un Israele brutalizzato e amareggiato potrebbe finalmente liberare i palestinesi dalla loro visione distruttiva della loro stessa causa e del nemico, non per magnanimità ma per necessità e dolore israeliani. Da sola la distruzione di Hamas non porterà la pace, ma forse non è troppo ottimistico sperare che possa segnare la fine del lungo collasso della Palestina. 
(Da: Times of Israel, 16.10.23)

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