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La Repubblica Rassegna Stampa
10.10.2023 Sicurezza ai confini, poi l’attacco
Analisi di Gianluca Di Feo

Testata: La Repubblica
Data: 10 ottobre 2023
Pagina: 10
Autore: Gianluca Di Feo
Titolo: «Le priorità dei generali mettere in sicurezza i confini prima di sferrare l’attacco»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 10/10/2023, a pag. 10, con il titolo "Le priorità dei generali mettere in sicurezza i confini prima di sferrare l’attacco" l'analisi di Gianluca Di Feo.

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Gianluca Di Feo

Le cose da sapere sull'attacco di Hamas e la risposta di Israele - Il Post

Prima di sfoderare la “Spada d’Acciaio”, Israele deve rimettere insieme lo scudo e ricostruire una difesa credibile dei suoi confini. La storia del Paese è sempre stata condizionata dalla geografia: l’estensione limitata impone di rendere sicure le linee interne prima di muovere l’attacco. Oggi però c’è una convinzione: non è mai stata vissuta una crisi così drammatica e la risposta sarà diversa dai conflitti del passato. Più determinata, più devastante e allo stesso tempo più carica di rischi. Per questo l’alto comando delle Israeli Defence Forces deve inventare una guerra nuova. I bombardamenti contro Gaza sono solo la premessa: si tratta di una reazione pesantissima ma prevedibile. Ogni offensiva invece deve misurarsi con la lezione dell’assalto di sabato: la consapevolezza di un colossale buco di intelligence mentre gli avversari conoscevano nei dettagli i metodi dell’esercito israeliano. Questo smacco è il punto di partenza per il piano di battaglia: c’è una corsa frenetica a recuperare informazioni sulla reale capacità dei nemici. E la necessità di sorprendere le truppe rivali, secondo l’antica massima di Sun Tsu: “Colpisci il nemico dove non è preparato. Vai a fondo dove non se l’aspetta”. Il doppio fronte La grande domanda è: l’offensiva sarà limitata alla Striscia o si estenderà al Libano? Lì il movimento sciita Hezbollah è molto più temibile di Hamas. Lo ha dimostrato nel 2006, quando 32 giorni di raid aerei e assalti terrestri non hanno fermato i suoi razzi. E almeno dal 2018 i generali hanno messo in guardia il governo: l’intervento nel conflitto civile siriano al fianco di Damasco ha trasformato Hezbollah in un vero esercito, che ha un arsenale gonfio di ordigni micidiali per bersagliare ogni città israeliana. Non a caso, Netanyahu ha chiesto a Biden di fornire le batterie Iron Dome acquistate dagli Usa per incrementare la “cupola” sul versante libanese. I vertici di Hezbollah finora sono stati cauti ma sanno chela resa dei conti con Israele è solo questione di tempo. Le stesse valutazioni si fanno nel quartiere generale delle Idf: Israele non sarà mai sicura senza ridimensionare la minaccia sciita. Gaza e il Libano sono due incognite della stessa equazione, che deciderà il futuro del Paese. Il fattore umano Una guerra in Libano però comporta l’impiego di tanti uomini e perdite consistenti. Nel 2006 furono spediti 30 mila militari, con 1.465 tra caduti e feriti. La strategia israeliana ha sempre enfatizzato la potenza di fuoco – artiglieria e cacciabombardieri – rispetto alla manovra sul terreno proprio per limitare il tributo di sangue. Una scelta che dall’inizio del millennio ha dovuto prendere atto del cambiamento della società: le giovani leve hanno perso il senso della lotta per la sopravvivenza che aveva animato i superstiti della Shoah e i loro figli. Lo ha descritto Rom Leshem nel romanzo “Tredici soldati”, ispirato dal plotone di ventenni assediato da Hezbollah nelle rovine del castello crociata di Beaufort: «L’esercito è diventato quello dei poveri e dei più deboli – ha sottolineato - . Per i rampolli dell’élite contano solo denaro e successo». Questo fattore umano pesa sulle scelte di Israele. Lo choc per i massacri jihadisti risveglierà la determinazione dei suoi cittadini? E l’addestramento è all’altezza della sfida che attende i carristi destinati a entrare nelle strade di Gaza? Dal punto di vista militare, l’attacco alla Striscia è un incubo. In 13 chilometri vivono oltre due milioni di persone, c’è un labirinto di cunicoli e ogni palazzo nasconde una trappola. Nelle vecchie operazioni contro Gaza i palestinesi disponevano di circa 15 mila miliziani poco addestrati e male armati. Gli israeliani avevano mezzi moderni e reparti istruiti agli scontri urbani: hanno sfruttato il tiro di artiglieria e aerei per coprire l’avanzata delle colonne corazzate e spezzare la resistenza. Ma ora i terroristi hanno dimostrato un coordinamento perfetto e possiedono ordigni che possono neutralizzare anche i tank. E soprattutto, Hamas sta aspettando l’attacco dietro lo scudo di oltre cento ostaggi: un’altra situazione inedita, che complica qualsiasi intervento. L’opinione pubblica israeliana già provata dalla carneficina può accettare il sacrificio di altri connazionali? Non sembrano esistere soluzioni operative per conciliare i raid e la salvezza dei prigionieri. E l’alto comando sembra intenzionato ad andare avanti a ogni costo. L’irruzione La mobilitazione di 300 mila riservisti indica la magnitudo del terremoto in arrivo. Oltre diecimila tra tank e cingolati stanno venendo schierati. Nelle precedenti campagne a Gaza c’era solo la volontà di dare una lezione ad Hamas. Ora l’unico obiettivo che può restituire credibilità a Israele è lo smantellamento dell’organizzazione jihadista. Il che significa non solo irrompere nella Striscia, ma occuparla per il tempo necessario ad annientare ogni deposito sotterraneo. Un impegno massiccio e lungo, che costerà un sacrificio di vite enorme e avrà ripercussioni in tutta la regione: «Cambieremo il Medio Oriente», ha promesso ieri il premier Netanyahu. La rappresaglia si spingerà fino all’Iran, ritenuto il mandante dell’assalto palestinese? Anche su questo fronte, i piani israeliani sono pronti da anni con una lista di bersagli per i “caccia invisibili” F35. Poi toccherebbe alla barriera dei sistemi contraerei Arrow il compito di intercettare la reazione dei missili balistici iraniani. Sarebbe un duello sull’orlo dell’Apocalisse: Teheran ha un arsenale di ogive chimiche, Israele di testate atomiche.

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