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La Stampa Rassegna Stampa
04.06.2003 L'incontro di Sharm El-Sheikh
Ma c'è ancora che non pronuncia nemmeno il nome di Israele

Testata: La Stampa
Data: 04 giugno 2003
Pagina: 5
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Ostacoli e trappole sulla strada della»
Riportiamo l'articolo di Fiamma Nirenstein pubblicato su La Stampa mercoledì 4 giugno 2003.
Non si capisce ancora se ciò cui stiamo assistendo negli scenari troppo colorati di Sharm el-Sheikh è una grande inconsapevole messa in scena oppure la rivoluzione del secolo, l’avvento di un nuovo mondo. Oggi ad Aqaba vedremo il vero clou della vicenda: dopo tre anni di indicibili lutti, Ariel Sharon, il Grande Vecchio che tanti hanno amato odiare come un personaggio pericoloso per la pace, apparirà sotto l’ala di Bush di fronte al mondo insieme con Abu Mazen, il nuovo primo ministro palestinese, che rassicura con quell’apparenza seria, normale, dopo tanta spettacolarità arafattiana. Visti insieme, sono un evento mondiale, un’immagine simbolica di svolta, quasi come quella di Arafat e di Rabin sul prato della Casa Bianca.
Ieri Bush ha preso di petto quattro leader arabi moderati e altrettanto ha intenzione di fare oggi con Sharon e Abu Mazen in incontri-simbolo, così da ottenere una specie di personale giuramento che nelle sue speranze è la garanzia della riuscita: un Medio Oriente sulla via della democratizzazione e della lotta al terrorismo. Tutto si basa sulle promesse personali fatte agli Stati Uniti: il Quartetto suona alquanto in sordina, anche se l’Europa negli ultimi giorni si è molto sforzata di recuperare un suo ruolo. Bush ha una linea uguale per tutti: «Qui non si scherza, siamo in piena guerra al terrorismo, ci troviamo in una situazione in cui il segnale forte della nostra concordia è la realizzazione della "Road Map". Sostenete Abu Mazen, lasciate perdere Arafat, e partecipate con me a questa guerra generale per la democrazia e contro il terrore».
Questo Bush ha detto uno a uno ai quattro leader moderati del mondo arabo con cui si è presentato sul proscenio di Sharm el-Sheikh, ma erano orecchie molto diverse quelle che lo hanno ascoltato: e aveva un che di surreale, specie dopo la guerra in Iraq e quella precedente in Afghanistan, vedere legati come un sol uomo storie e scelte completamente diverse e addirittura conflittuali fra di loro. La dinastia hashemita, definita tante volte «reazionaria» dagli altri Paesi arabi sin dal tempo di Nasser; l’Arabia Saudita, un regime in bilico fra petrolio, integralismo wahabita, disinvoltura diplomatica, finanziamenti al terrore; un piccolo mondo tutto d’oro come il Bahrein; un Raíss-faraone e carico di ambizioni di primato mediorientale come Mubarak, tutti schierati con Bush nella guerra al terrore con il quale si sono sempre barcamenati, pur avendolo in certi momenti stroncato senza pietà.
L’unico segnale di vitalità autonoma si è concretizzato invece che in qualche intervento positivo concordato che riflettesse progetti economici e culturali per un miglioramento nell’area, nel solito, sempiterno rifiuto di riconoscere Israele che ha condotto a tutte le guerre mediorientali dal ‘48, quando gli Stati arabi rifiutarono la partizione dell’Onu, fino ad oggi. Questo naturalmente non vale per Egitto e Giordania, che hanno con Israele paci stipulate; ma se Israele non sarà riconosciuto la sponda per il terrorismo resterà comunque ampia e storicamente consolidata, e Bush si troverà in difficoltà.
Tuttavia il presidente americano di sicuro ha ottenuto due obiettivi nel summit di ieri: il primo, il più ovvio, mettere il mondo arabo in guardia da «sgarri» che in un momento come questo, in cui la lotta al terrore è in pieno corso, possono risultare assai pericolosi per la sua linea e per la sua rielezione; il secondo, avere implicitamente indicato ai suoi interlocutori una strada, quella della democrazia. Invitandoli infatti a sostenere Abu Mazen li ha inchiodati a una scala di valori da cui sarà molto difficile sfuggire. Inoltre, e Colin Powell l’ha ripetuto un paio di volte, anche Mubarak s’è detto d’accordo sul controllo dei fondi che devono giungere all’Autonomia palestinese dai Paesi arabi: guai se finissero in armi e cinture esplosive, o in libri di testo e giornali incendiari com’è capitato nel passato.
Tutto ciò è ancora una disordinata seppur promettente accozzaglia di pezzi di un puzzle. E lo stesso vale per l’incontro odierno: Israele è terribilmente agitato per l’imminenza di una «Road Map» che somiglia alquanto al piano di pace di Clinton, e a un George Bush che con il passare dei giorni lo ricorda sempre di più, almeno nella dimensione della pacificazione mediorientale: impegno diretto, a testa bassa, una puntata rischiosa tutta sulla propria forza. Sharon sta già liberando un centinaio di prigionieri di cui alcuni «con il sangue sulle mani», come si dice nel caso di avvenuta condanna per terrorismo; ha promesso di smantellare gli avamposti; e soprattutto parla di Stato palestinese in un sol fiato con il termine «occupazione». Abu Mazen, se parla chiaramente di fermare il terrorismo, non vuole ancora nominare uno Stato d’Israele del popolo ebraico: seguita a tenersi cara la letale carta dei profughi, quella che ha sempre distrutto ogni processo di pace.
Qui Bush ha un problema autentico, perché se i palestinesi non ammetteranno l’esistenza di Israele difficilmente Sharon potrà proseguire sulla sua strada di ammettere e dichiarare lo Stato palestinese. Ieri ci sono stati 63 avvertimenti di attentati terroristici in preparazione, ma i mortai di Gaza non sparano più da alcuni giorni. I segnali anche in questo caso sono contraddittori. E’ bene oggi emozionarsi, se si vuole, ma contenere le speranze fino a che i prossimi giorni ci diranno se la «Road Map» porta da qualche parte.
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