Non c’è Stato d’Israele democratico che non sia anche Stato ebraico Analisi di Ben-Dror Yemini, da Israele.net
Testata: israele.net Data: 07 ottobre 2023 Pagina: 1 Autore: Ben-Dror Yemini Titolo: «Non c’è Stato d’Israele democratico che non sia anche Stato ebraico»
Non c’è Stato d’Israele democratico che non sia anche Stato ebraico
Analisi di Ben-Dror Yemini, da Israele.net
Ben-Dror Yemini
La Dichiarazione d’Indipendenza occupa un posto d’onore nelle celebrazioni israeliane. Benché non sia una Costituzione, si tratta di un documento fondativo, riconosciuto come tale nella Legge Fondamentale su Libertà e Dignità umana. Questa riconoscimento è basilare. La frase “stato ebraico” compare più volte nella Dichiarazione d’Indipendenza. Non compare invece la parola “democratico”, ma il testo della Dichiarazione stabilisce che Israele “assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso; garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura; salvaguarderà i Luoghi Santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite”. Ciò mette in chiaro che Israele non è solo democratico, ma anche liberale nella sua essenza. In Israele, praticamente nessuno in linea di principio mette in dubbio la natura di stato democratico, anche coloro che sostengono una loro versione di un sistema “un po’ più democratico”. Invece, c’è chi cerca di privare Israele della sua identità di stato ebraico. Finora queste voci provengono soprattutto dall’estrema sinistra, dagli anti-sionisti che ripetono il logoro ritornello secondo cui vi sarebbe una “contraddizione” tra essere democratico ed essere ebraico. Costoro sono ben rappresentati in due sfere molto influenti a livello globale: i mass-media e il mondo accademico. Ed anche nel quotidiano israeliano Ha’aretz, col tempo sempre meno incline al sionismo. E’ un caso di democrazia in piena funzione: l’aperta opposizione all’essenza stessa di Israele è in se stessa un’espressione di libertà di parola e di democrazia. In realtà, si tratta di un dibattito tutt’altro che marginale. Ora il direttore stesso di Ha’aretz, Aluf Benn, ha pubblicato un articolo intitolato “Ebraico e democratico? È ora di cancellare la parola ebraico”. Con tutto il rispetto, vale la pena leggerlo e scuotere la testa increduli. Il fervore messianico dell’estrema destra vuole lasciar cadere il concetto di “democratico”, mentre il fervore messianico dell’estrema sinistra vuole abbandonare il concetto di “ebraico”. C’è qualcosa di veramente vergognoso nell’affermazione del direttore di Ha’aretz, che dedica un intero articolo a calpestare l’essenza fondamentale della Dichiarazione d’Indipendenza di Israele. Ha forse deciso di chiudere gli occhi sui fatti della storia? Anche in giorni come questi di discordie, divergenze e lacerazioni, l’etica comune e il denominatore comune rimangono nella nozione di “ebraico e democratico”. E’ ciò che ci unisce. Il giorno in cui, Dio non voglia, si dovesse avverare la visione da incubo di uno stato d’Israele non “ebraico”, esso diventerà uno stato dell’esilio. Non vi sarà più una Legge del Ritorno (che garantisce agli ebrei di tutto il mondo il diritto di stabilirsi come cittadini in Israele ndr). I palestinesi pretenderanno, e presumibilmente otterranno, quello che loro chiamano “diritto al ritorno” (la possibilità illimitata per qualunque vero o presunto discendente di profughi palestinesi di stabilirsi, non nello stato palestinese, ma all’interno di Israele ndr). L’unica ragione per cui Israele, nonostante sia in Medio Oriente, è ancora una democrazia è perché è ebraico e ospita una maggioranza ebraica. L’estrema destra, in effetti, vorrebbe rinunciare al concetto di democratico per fondare uno stato ebraico più grande, dal mare al fiume Giordano, sotto dominio ebraico. Solo ebrei. Dal canto suo l’estrema sinistra, ahimè, vorrebbe rinunciare al concetto di ebraico. E’ una polemica divisiva, una polemica anti-sionista da entrambi gli estremi. È essenziale guardare al contesto storico. La persecuzione degli ebrei durò migliaia di anni, non iniziò solo alla fine del XIX secolo. Ci furono movimenti con aspetti messianici, in particolare cristiani, che caldeggiavano il ritorno degli ebrei a Sion (si veda l’eccellente Power, Faith and Fantasy di Michael Oren). Tuttavia, gli ebrei stessi non abbracciavano in massa questa idea come un progetto concreto. Dunque, cosa accadde di diverso alla fine del XIX secolo? Certo, Theodor Herzl ebbe un ruolo significativo in quel contesto, non c’è dubbio. Ma se il sionismo politico sorse in quegli anni fu grazie al risveglio generale di movimenti nazionali contro il dominio imperiale e coloniale: invocavano libertà, indipendenza e, sostanzialmente, il diritto all’auto-definizione. La Dichiarazione Balfour (primo riconoscimento del diritto degli ebrei a una loro sede nazionale in Terra d’Israele ndr) venne accordata non solo grazie agli sforzi di Herzl e di Chaim Weizmann, ma anche grazie al riconoscimento internazionale del principio di autodeterminazione. In effetti, pochi mesi prima della Dichiarazione Balfour il Ministero degli Esteri francese aveva rilasciato una dichiarazione simile che si esprimeva a favore di una sede nazionale per gli ebrei. La stessa Dichiarazione Balfour fu coordinata con altri paesi, soprattutto grazie al lavoro di Nahum Sokolow che fece pressione sui capi di stato, compreso il Papa. Anche il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson appoggiò la dichiarazione e poco dopo pubblicò i suoi “Quattordici punti”, basati sul principio dell’autodeterminazione. Di questi tempi c’è chi tenta di dipingere il sionismo come un movimento colonialista. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Il principio di autodeterminazione invocato dal sionismo era intrinsecamente antimperialista e anti-colonialista. Sostenere che Herzl intendeva uno “stato ebraico” e non uno “stato degli ebrei”, o viceversa, è senza fondamento. Herzl usava entrambi i termini “stato degli ebrei” e “stato ebraico”. Per dissipare ogni dubbio, nel suo primo discorso al Congresso sionista affermò: “Il sionismo sta tornando all’ebraismo ben prima di tornare nella terra degli ebrei”. Naturalmente non si riferiva all’ebraismo nella versione del blocco ultra-ortodosso. L’idea, poi, che l’era delle nazioni sia finita, come molti sostengono, non corrisponde agli eventi storici. È vero il contrario. Dissolvendosi, l’impero sovietico si è frammentato in 15 stati-nazione. E quando la Russia si rifiutò di riconoscere l’indipendenza nazionale dell’Ucraina, tutti gli stati-nazione appena formati si schierarono con l’Ucraina. La Cecoslovacchia si è divisa in due stati-nazionali. La Jugoslavia si è disintegrata in sette entità etnico-nazionali. I palestinesi stessi rivendicano l’auto-determinazione nazionale e il quotidiano Ha’aretz è un eminente sostenitore della loro richiesta. In pratica, la maggior parte dei paesi del mondo si sono formati sulla base di un’identità in vario modo condivisa: in altre parole, come stati-nazionali. Dunque, perché solo a Israele dovrebbe essere negato il diritto all’auto-definizione nazionale? E’ vero, l’ebraismo comprende sia la religione che la nazionalità, ma Israele non è unico in questo senso. L’Armenia è un ben definito stato-nazionale basato su religione e nazionalità. Lo stesso vale per altri paesi, comprese alcune nazioni occidentali con un fondamento costituzionale nelle rispettive tradizioni religiose. Anche i paesi a maggioranza musulmana seguono esplicitamente questo modello. A minoranze e immigrati viene spesso richiesto di giurare fedeltà a uno stato che include elementi religiosi nella sua costituzione, e talvolta anche di cantare un inno nazionale che contempla simbolismi religiosi. Ma tutto cambia quando si tratta di Israele: un caso di discriminazione travestito da laicismo. Durante l’era degli Accordi di Oslo, da alcuni gruppi arabo-israeliani emersero slogan che reclamavano lo smantellamento del carattere ebraico di Israele. All’epoca, un giornale importante e illuminato prese una posizione ferma e risoluta contro queste pretese. In un editoriale di allora si leggeva: “La minoranza araba ha ragione quando chiede piena parità di diritti, ma c’è un ambito in cui la maggioranza ebraica ha il diritto di esprimere la propria posizione e consigliare alla minoranza araba di darle ascolto: la maggioranza dei cittadini dello stato non tollererà movimenti politici che pretendono di minare il carattere ebraico del paese. Questo stato è stato istituito per garantire una patria nazionale al popolo ebraico. Il popolo ebraico costituisce un’entità etno-nazionale peculiare che combina religione e nazionalità, e nessun esercizio retorico può cambiare questo dato di fatto. Pertanto, le regole del gioco politico in Israele derivano dal principio che si tratta di uno stato ebraico, e nessuna forza politica può figurarsi di metterlo in discussione”. Nel caso non si fosse capito, si tratta di un editoriale pubblicato su Ha’aretz il 12 febbraio 1996 con il titolo “Identità e uguaglianza civile”. L’articolo affermava con fermezza che non esiste nessun enunciato che possa cancellare il principio secondo cui Israele è uno stato ebraico, nemmeno le deprecabili acrobazie verbali impiegate dall’attuale direttore dello stesso Ha’aretz.