Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 05/10/2023, a pag.17 con il titolo 'Il regime di Putin va fermato' l'intervista di Anna Zafesova.
Anna Zafesova
Evgenia Kara-Murza
Teoricamente, Evgenia Kara-Murza potrà riabbracciare suo marito Vladimir tra 25 anni, quando finirà di scontare la condanna per «alto tradimento» e «calunnia dell'esercito russo» inflittagli dal tribunale di Mosca. Il 42enne giornalista e oppositore è stato portato in un carcere rigido nel cuore della Siberia, dove è stato subito chiuso in una cella di punizione, una scatola di cemento gelida dove riceve una razione di cibo ridotta. «Ho paura per la sua vita», dice Evgenia con la stessa voce ferma con la quale spiega ai politici di tutto il mondo – ieri ha avuto un incontro alla Camera dei deputati a Roma – che il regime di Vladimir Putin va fermato perché «altrimenti la Russia sarà sempre un pericolo, per se stesso e per gli altri».
Come sta suo marito? Dove si trova ora? «Dal 21 settembre si trova nella colonia correttiva IK-6 di Omsk, a 3 mila chilometri da Mosca. Durante tutto il trasferimento, durato 17 giorni, era sempre isolato, una cella separata nella carrozza detenuti, isolamento nelle carceri durante le soste, infine il SHIZO, la cella di punizione all'arrivo, per quasi tre settimane. Credo che dopo lo metteranno in cella solitaria, non vogliono che "corrrompa" gli altri detenuti. L'ultima volta che aveva fatto soltanto pochi giorni di SHIZO, ne era uscito senza più sentire le gambe e un braccio. Soffre di polineuropatia, una conseguenza dei due avvelenamenti di cui è stato vittima. Per la legge russa, non può rimanere in carcere perché è una malattia che potrebbe portarlo alla paralisi».
Come potrebbe venire aiutato? A volte sembra quasi che il regime di Putin risponda agli appelli dell'opinione pubblica occidentale incrementando i tormenti dei dissidenti in carcere? «Se non parliamo dei prigionieri politici, gli faranno le stesse cose orribili che gli stanno facendo ora, ma non lo saprà nessuno. Faranno la fine di Anatoly Berezikov, l'attivista di Rostov-sul-Don torturato a morte in carcere per aver affisso volantini ucraini. Bisogna parlare di tutti, bisogna rendere pubblici i casi concreti. A volte, una pressione permanente permette di ottenere un piccolo miglioramento: assistenza medica, una visita dei familiari. Nel nostro caso, dopo più di un anno di pressioni Vlladimir è riuscito a ottenere di poter parlare al telefono con i nostri tre figli. Certo, sono telefonate di 15 minuti, cinque per ciascun bambino, che a volte venivano cancellate senza preavviso, ma era riuscito a parlarci. Ovviamente, ora che è in una prigione in Siberia, non ci saranno più telefonate».
Quali altri strumenti possono funzionare, oltre alle pressioni mediatiche? Le sanzioni? «Le sanzioni personali sono un ottimo strumento, che ovviamente va tarato e aggiustato essendo nuovo. C'è una strana giustizia poetica nel fatto che a giudicare Kara-Murza siano stati i giudici e i funzionari carcerari finiti sotto le sanzioni della "lista Magnitsky" proprio grazie al suo impegno."
La frase "La mia Russia oggi è chiusa in carcere" è diventata una sorta di slogan del dissenso. È un tentativo di giustificare quello che sembra il silenzio assordante della maggioranza? «I russi perseguitati per aver denunciato la guerra, sono il volto dell'altra Russia. Ma non è vero che sono pochi. Esistono anche i partigiani, che incendiano i commissariati militari o bloccano i treni carichi di armi. La nostra Free Russia Foundation lavora con la società civile, i gruppi di attivisti, persone che parlano con altre persone. Rischiano tantissimo e quindi spesso non possono rendere pubblica la loro attività. Considerando che rischiano condanne a 15 anni per un manifesto, di vedersi togliere i figli, di finire in una clinica psichiatrica, non so se sono pochi quelli che resistono. Nel 1968, dopo l'invasione di Praga, in piazza Rossa scesero soltanto otto persone, oggi parliamo di 20 mila arresti di chi protesta contro la guerra».
Perché l'opposizione russa non riesce a esprimere un fronte unito, un comitato di coordinamento, un governo in esilio? «Per un governo in esilio ci vorrebbero le elezioni, non possiamo autonominarci se vogliamo rimanere democratici. Abbiamo le nostre divergenze, non dobbiamo diventare un partito unico. Si tratta di agire insieme, per fermare la guerra e liberare la Russia dal regime di Putin. Se la Russia non diventerà democratica non avrà un futuro, su quello siamo tutti d'accordo».
Come ci si arriva? Con la vittoria militare dell'Ucraina, con la rivolta interna, con un golpe al Cremlino? «L'Ucraina deve vincere, deve ottenere la pace alle sue condizioni, non a quelle di Putin, su questo non si discute. Un Paese aggredito non può cedere territori all'aggressore per placarlo. Putin ha già dimostrato che non si ferma, a meno che non venga fermato. Non possiamo contare su una trasformazione del regime di Putin, non è trasformabile e quindi deve cadere».
Come? «La storia russa dimostra che le "piccole guerre vittoriose" volute da un regime di solito portano alla sua caduta. È successo all'inizio del '900, è successo dopo l'Afghanistan, succederà anche adesso. La comunità internazionale non può sperare di isolare la Russia in un recinto. Quindi, bisogna aiutare l'Ucraina a vincere e la società civile russa a resistere. L'unica cosa che noi russi non possiamo permetterci è di dire che tutto è finito, e andarcene. So come funziona la disperazione, ci sono giorni in cui mi sveglio e non riesco ad alzarmi, e mi devo prendere a calci. Ma se ci fermiamo, il regime ci calpesterà».