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La Repubblica Rassegna Stampa
04.10.2023 Il ghetto di Roma, per non dimenticare
L'anticipazione dal nuovo libro di Lia Levi

Testata: La Repubblica
Data: 04 ottobre 2023
Pagina: 35
Autore: Lia Levi
Titolo: «Il cielo nero sopra il ghetto di Roma»

Riprendiamo da REPUBBLICA del 04/10/2023, a pag.35, con il titolo 'Il cielo nero sopra il ghetto di Roma', il racconto di Lia Levi.

4 giugno 1944, Lia Levi. Il romanzo su Roma perduto nel cassetto - la  Repubblica
Lia Levi

Insieme con la vostra famiglia - Lia Levi

Insieme con la Vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti… Guardatelo, leggetelo il documento che abbiamo voluto apparisse anche sulla copertina di questo piccolo libro. È un foglietto modesto, dall’apparenza qua si complice, quello consegnato dalle squadracce SS il 16 ottobre del 1943 ai capifamiglia di ogni casa ebraica. Studiatelo, ripetetelo ai vostri figli, perché è da quelle rozze, elementari parole, subdolamente riferite a un normale quotidiano, che l’Apocalisse ha steso le sue braccia. Il Canto del Popolo Ebraico Massacrato camuffato da illusorie, sgrammaticate “regole del viaggio”! Un ulteriore oltraggio a «quegli ebrei tristi e in fondo così allegri / che cercavano di guadagnarsi il pane / che cercavano Dio». prendete con voi le tessere annonarie, la carta d’identità, i bicchieri e non dimenticate di chiudere ben a chiave la porta di casa Particolari legati alla vita ma non, non nel suo senso sacrale. Sono istruzioni su finte regole di una finta normalità. Solo alla fine, mentre il terrore si sta sforzando di sopire se stesso, quel misterioso, raccapricciante affondo. ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo E, prima ancora che la gente frastornata si possa chiedere perché, la conclusiva regola numero 6): 20 minuti dopo presentazione di questo biglietto la familia deve essere pronta per la partenza 20 minuti fra un’esistenza fatta di amore e dolore, litigi e abbracci, bambini dagli occhi brillarelli capaci di stare in posa solo per le foto di famiglia… e le campane che suonano vorticosamente a morto. Perché questa sadica farsa? La risposta più semplice è già a portata di mano: il Comando SS voleva tranquillizzare le vittime in modo che non si verificassero disordini, tentativi di fuga o vere e proprie rivolte. Ma è solo questa la motivazione? Una così forte carica di malvagità soltanto per motivi di ordine pubblico? O ci sono altre, più sotterranee ragioni? È difficile rispondere. Ma sì, è stato Primo Levi a lasciarci scritto un indelebile giudizio-ammonimento: «non solo non si può capire ma non si deve capire perché sarebbe già abbozzare una giustificazione». Ma, in un altro contesto, una sua più forte risposta che è anche un grido di rivolta contro chi considera virtù intellettuale offrire bilanciato spazio alle motivazioni degli assassini. «La ferocia e la dismisura dell’Olocausto voluto dai nazisti albergano in sé unenigma che nessuno storico ha finora risolto» ha scandito in uno dei suoi volumi delle Opere . «Soprattutto e al di là di ogni esempio animalesco, nessuno ha finora capito perché la volontà di sopprimere l’ avversario andasse congiunta con una più forte volontà di fargli soffrire le più atroci sofferenze immaginabili, di umiliarlo, di vilificarlo, ditrattarlo come una bestiaimmonda, anzi, come un oggetto inanimato. È veramente questo il tratto unico della persecuzione nazista». Ed eraquesta la componente fondamentale del piano che a Roma ha fatto muovereilComando Germanicoattraverso 365 militi SS (affiancato da due funzionari della polizia italiana con le loro squadre)? Difficile, quasi impossibile, credere a tutto questo ma di sicuro il male era il cielo sotto cui avanzavano con inalterabile disciplina le truppe armate. Ma cosa sentivano loro, le vittime, a quale legno galleggiante si aggrappavano di fronte all’addensarsi del pericolo? L’essere umano è complesso e la speranza è l’ancella fedele all’istinto di conservazione. Quando si tratta di salvarsi può capita re di aggrapparsi anche alle più illusorie considerazioni. Gli ebrei di Roma, specie quelli più legati allaPiazza , si sentivano più romani dei romani. Insomma, una specie di costola della città ancora più antica del Colosseo, visto che la loro presenza nell’Urbe risaliva indietro indietro nei secoli. A loro ormai non poteva capitare niente di male. La città li avrebbe difesi. E poi, sul piano pratico contemporaneo, figuriamoci se i tedeschi avrebbero osato compiere atti di violenza contro gli ebrei romani proprio sotto gli occhi di Sua Santità il Papa. E in più c’era stato anche il Patto dell’Oro. Cinquanta chili di oro consegnati dalla comunità ebraica ai tedeschi in cambio del l’assicurazione: «nessun ebreo verrà arrestato e portato via». Non un trattato sotterraneo, patteggiato all’angolo di un vicolo, ma un atto ufficiale, siglato in un ufficio pubblico di cui anche le autorità italiane erano state messe al corrente. I tedeschi, magari, un po’ cattivi erano, ma qui si trattava di impegni della Classe Dirigente di uno Stato. E, se proprio si fossero voluti aggiungere altri legnetti per attizzare il fuoco dell’ottimismo, sarebbe bastato pensare agli eserciti degli Alleati ormai così vicini che potevano liberare Roma da un momento all’altro. Poi, in quel giorno, il rovesciamentodel mondo. Il turbinio di voci intrecciate, le grida, gli scomposti e improvvisati tentativi di fuga e, ancora, brandelli d’illusione. «Sono venuti a prendere gli uomini per il servizio di lavoro ». Era l’idea che circolava e, per fortuna, molti giovani erano scappati in tempo. Ma forse non stava succedendo così.«Stanno a porta’ via tutti, proprio tutti» era ormai il grido che volava da un cortile all’altro. Tra gli urli dai balconi e il pianto dei bambini aveva cominciato a farsi strada un atterrito sconvolgimento. «Dove ci stanno portando? ». Ma, malgrado tutto, anche in quel momento siamo ancora nel vecchio mondo, quello delle primigenie regole della civiltà. Nessuno può essere in grado di capovolgere d’un colpo l’ordine del creato. C’è una frase che mi è rimasta fissa nella mente. Sono poche parole. Risalgono ai tempi in cui, con gli altri colleghi, mi occupavo del giornale Shalom .È stata Settimia Spizzichino a raccontarcele in redazione. Sì, quella Settimia, unica donna fra i sedici sopravvissuti del 16 Ottobre 1943, diventata poi gloriosa e infaticabile testimone della Shoah. È una famiglia numerosa la sua, sei erano i figli di mamma Grazia e papà Mosè. Quella mattina il loro nascondiglio improvvisato viene subito scoperto. Grazia, Settimia e altre due sorelle, la più grande con la figlietta in braccio, vengono immediatamente trascinate via. Ma fra panico e crescente terrore siinsinuaaccomodante la voce della madre. «Vedrai, che ce possono mai fa’?» continua a ripetere scuotendo il braccio di una o dell’altra figlia. Ma incredibile è quello che è seguito dopo. Il dopo è quando, alla stazione Tiburtina, con i deportatigià ammassati nei vagoni: «che vuoi che ce fa ranno? Mica c’ammazzano. Lavoreremo ». Anche lì, in quella bolgia quasi infernale, è stata la materna voce della tranquillizzazione a farsi strada nel buio. Ti hanno invece ammazzata, Grazia Disegni sposata Spizzichino. Ti hanno ammazzata il giorno stesso del vostro arrivo ad Auschwitz, insieme a quella tra le figlie stretta alla sua bambina. Non era ingenuità o l’inadeguatezza de gli umili la voce con cui sei riuscita a strappare le tenebre. Era il candore del Giusto. E tutti noi, Grazia, ti siamo riconoscenti per quella tua frase che ha riconsegnato spazio e dignità al concetto di cosa dev’essere l’Uomo.

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