Li abbiamo già sentiti tutti. Dal greenwashing (ecologismo di facciata) all’art-washing, al vegan-washing, persino il fun-washing: secondo la mentalità degli anti-israeliani viscerali, non c’è nulla che lo stato ebraico non farebbe al solo e unico scopo di distrarre l’attenzione del mondo dai palestinesi e “coprire” i terribili crimini che Israele commetterebbe contro di loro. L’esempio più frequente di “lavaggio” (washing) di cui viene accusato Israele si riferisce al suo atteggiamento evoluto e aperto sulle questioni LGBT+, nel cuore di una regione mediorientale nella quale le minoranze sessuali subiscono ovunque pesanti persecuzioni: l’atteggiamento di Israele non sarebbe altro che una diabolica tattica diversiva, che gli attivisti anti-israeliani hanno soprannominato “pinkwashing”. Come è già stato più volte notato, l’accusa di pinkwashing riecheggia tradizionali cliché antisemiti, in particolare quello secondo cui qualsiasi cosa gli ebrei facciano di buono o benefico non può che essere parte di qualche loro nefasto disegno occulto e inconfessabile.
Ma ora l’accusa di pinkwashing viene utilizzata come qualcosa di più di un semplice randello per attaccare Israele. Oggi l’accusa funge allo stesso tempo da scudo per sfuggire alle critiche alla diffusa omofobia che pervade la società palestinese e araba. Un recente esempio si è avuto sul quotidiano di sinistra canadese Rabble, che ha pubblicato una presunta “analisi” sotto il perentorio titolo: “Pinkwashing israeliano: è una facciata”. Nell’articolo, l’editorialista di Rabble Yara Jamal e la fondatrice di “Free Palestine Halifax”, Katerina Nikas, sostengono che il pinkwashing “dipinge i palestinesi come arretrati, razzisti e barbari per giustificare l’oppressione e il trattamento ineguale dei palestinesi sia etero che queer”.
A parte inanellare una serie di affermazioni scollegate e infondate intese a dimostrare che Israele trarebbe profitto dal pinkwashing (come il fatto che la parata Gay Pride di Gerusalemme si svolgerebbe su un territorio da cui sono stati cacciati i palestinesi), le autrici si arrampicano sugli specchi per cercare di dimostrare la loro ipotesi centrale secondo cui i diritti dei gay in Israele sono una mera “facciata”. Scrivono:
“Israele promuove la sua capitale, Tel Aviv, come destinazione gay friendly in Medio Oriente, ma allo stesso tempo non menziona il fatto che la città è costruita sopra villaggi da dove sono stati espulsi i palestinesi, che sono banditi dalla capitale. … Ai queer palestinesi viene anche negato l’asilo in Israele quando cercano di sfuggire alla discriminazione nelle loro comunità. … Nell’ottobre 2022 un gay palestinese di 25 anni, Ahmad Abu Murkhiyeh, è stato ucciso in Cisgiordania dopo che aveva cercato senza successo asilo in Israele due anni prima del suo omicidio”.
Tanto per cominciare, Tel Aviv non è la capitale di Israele. Jamal e Nikas possono agevolmente constatare che Governo, Parlamento, Presidenza e Corte Suprema hanno sede Gerusalemme.
In secondo luogo, l’affermazione che Tel Aviv sia stata costruita sopra villaggi palestinesi (e che ciò sia in qualche modo collegato all’accusa di pinkwashing) è semplicemente ridicola. Tel Aviv venne fondata l’11 aprile 1909 su dune sabbiose acquistate dal Keren Kayemet L’Israel (Fondo Nazionale Ebraico) a nord di Giaffa, ed esiste persino una famosa fotografia che ritrae le prime 60 famiglie che si aggiudicano per estrazione i lotti di terreno disabitato.
In terzo luogo, è manifestamente falso che ai palestinesi venga negato l’asilo in Israele. Anzi, l’anno scorso il governo ha annunciato l’intenzione di rilasciare permessi di lavoro temporanei ai palestinesi LGBT+ che chiedono asilo.
In quarto luogo, l’idea che Israele sia in qualche modo responsabile della morte di Ahmad Abu Murkhiyeh è un’agghiacciante distorsione di ciò che è realmente accaduto. Abu Murkhiyeh aveva vissuto per due anni in Israele come richiedente asilo quando improvvisamente tornò a Hebron, sotto Autorità Palestinese, per ragioni sconosciute (molto probabilmente venne sequestrato). A Hebron, Abu Murkhiyeh venne decapitato e il suo corpo senza testa gettato sul ciglio della strada, mentre immagini del cadavere smembrato venivano diffuse sui social network palestinesi. Rita Petrenko, fondatrice del gruppo israeliano di sostegno LGBT “Al Bait Al Mokhtalef”, che si prende cura principalmente di gay arabi, ha dichiarato che Abu Murkhiyeh era fuggito dalla sua casa a Hebron nel 2020 dopo aver ricevuto minacce di morte sia dalla sua famiglia che dalla comunità locale: “Aveva paura dei suoi fratelli, dei suoi zii, dei suoi cugini”, ha detto Petrenko.
Alla luce di tutto questo, la domanda è: perché Jamal e Nikas, come tanti giornalisti occidentali, trovano così difficile affrontare la semplice verità che gli atteggiamenti omofobici imperversano nella società palestinese e che questo non è colpa di Israele?
(Da: /honestreporting.com, 27.9.23)