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La Stampa Rassegna Stampa
27.09.2023 Armeni cancellati dalla storia
Analisi di Antonia Arslan

Testata: La Stampa
Data: 27 settembre 2023
Pagina: 17
Autore: Antonia Arslan
Titolo: «Il popolo sacrificabile»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 27/09/2023, a pag.17, con il titolo "Il popolo sacrificabile", il commento di Antonia Arslan.

Antonia Arslan | Rivista Inchiostro
Antonia Arslan

Moltissimi sono i proverbi che la saggezza popolare ha inventato per descrivere situazioni estreme (e terribili) come quella in cui si trova oggi la popolazione del piccolo ma importantissimo territorio di montagna chiamato Nagorno-Karabakh (Artsakh per gli abitanti, montanari armeni del Caucaso, essendo l'altro nome per loro una memoria costante di dominazioni straniere). Ma quello che più trovo adatto al momento attuale, nella sua essenzialità atmosferica, è molto semplice: «Tanto tuonò che piovve». Dopo la guerra perduta dell'autunno 2020, con un territorio ridotto e minacciato da ogni parte, ci sono stati i tuoni delle ripetute e sempre più accentuate minacce da parte azera: sia verbali, grondanti odio e volontà di annientamento, che fisiche, con progressivi sconfinamenti, rosicchiamenti di chilometri e chilometri di territorio (ora in un punto ora nell'altro del contestato confine), qualche bomba e qualche vittima, contadini a cui è impedito coltivare i loro poveri campi, di vendemmiare le loro uve prelibate, esercitando una pressione psicologica e fisica sempre crescente. Ma dopo i tuoni, ecco la pioggia: il blocco dal dicembre 2022 del purtroppo famoso corridoio di Lachin (l'unica strada che collega oggi l'Artsakh all'Armenia e al resto del mondo) che nello stillicidio di ben otto mesi di durata ha prostrato le forze dei circa 120.000 montanari armeni che ancora vi abitano, attaccati alla loro antica patria come l'ostrica allo scoglio. Ma non è bastato: ecco la grandinata finale, che distrugge ogni cosa. Con una mossa largamente prevedibile, che solo la volontaria cecità dell'intero Occidente può chiamare sorprendente, qualche giorno fa è stato scatenato l'attacco definitivo, con l'impiego di una potenza bellica tale da travolgere ogni resistenza. Sono bastate 24 ore: il governo autonomo dell'Artsakh si è piegato e sta «trattando» la resa. Di quale trattativa possa trattarsi, e sotto quale manto di ipocrisia possa essere coperta questa parola (a me sembra il discorso dell'agnello col lupo prima di essere mangiato...), lo ha descritto perfettamente – nel suo appassionato e lucido intervento di qualche giorno fa alla Commissione per i Diritti Umani "Tom Lantos" del Congresso degli Stati Uniti - Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte Criminale Internazionale dal 2003 al 2012: «Gli Stati Uniti stanno favorendo negoziati fra un genocida e le sue vittime...non si può assistere da spettatori a un negoziato fra Hitler e i deportati di Auschwitz!». In queste ore, si sta verificando proprio questo. Mentre i cosiddetti negoziati sono in corso, la gente dell'Artsakh ha gettato la spugna e ha cominciato a scappare. Nella piccola capitale Stepanakert, una cittadina linda e piacevole al centro di una conca verdeggiante, arrivano con tutti i mezzi e con le loro povere cose i contadini dei villaggi. Hanno distrutto quello che potevano, ma sanno - per triste esperienza - che le loro chiese saranno dissacrate e vandalizzate, le loro tombe aperte e le ossa dei loro cari sparse al vento, come è già successo nei territori perduti dopo la guerra del 2020. Sanno che l'intento preciso dei conquistatori è quello di fare terra bruciata di migliaia di anni di civiltà armena in quei luoghi e di riscrivere la storia, come è puntualmente e totalmente avvenuto nell'altro territorio - armeno da millenni - che era stato attribuito da Stalin alla sovranità azera, il Nakhicevan. E questo è propriamente genocidio, come da definizione dell'Onu del dicembre 1948: dopo l'eliminazione fisica, estirpare anche ogni traccia della cultura del popolo annientato. E non a caso, mi è arrivata anche la dichiarazione molto esplicita in proposito di 123 intellettuali turchi, tutte persone coraggiose che ben conoscono il rifiuto ancora totale da parte di tutti i loro governi di riconoscere il genocidio compiuto dai Giovani Turchi più di cent'anni fa: e che - fra l'altro! - stanno rischiando di persona. Mettono in guardia contro la politica genocida portata avanti dall'Azerbaigian (stretto alleato della Turchia) nel Nagorno-Karabakh, e chiedono alla comunità internazionale di agire per prevenire nuove tragedie, invece di restare a guardare. Il regime azero, del tutto incurante delle sollecitazioni ricevute da organizzazioni internazionali e da molti Paesi per interrompere il blocco del corridoio di Lachin, ha lanciato operazioni militari durante l'assemblea generale delle Nazioni Unite, scrivono, «mentre il mondo intero osservava in silenzio. Esiste un chiaro pericolo di pulizia etnica e di genocidio. Loro cercano di prendere il controllo completo dell'Artsakh e di eliminare gli armeni dai territori dove hanno vissuto per secoli, e in caso di resistenza semplicemente di ucciderli». Chiaro e partecipe, ma non basta. Nel silenzio colpevole dell'Ue, forse però qualcosa si muove al Congresso americano. Sono state presentate ben tre proposte di legge per un intervento umanitario diretto e chiedendo sorveglianza per le popolazioni in pericolo. L'autorevole Congressman Chris Smith, co-capo della Commissione per i diritti umani del congresso, e un gruppo bipartisan hanno fatto audizioni, compresa la situazione e appena depositata una proposta di legge chiamata Preventing Ethnic Cleansing and Atrocities in Nagorno-Karabakh Act of 2023 (H.R.5686), che esige che «il Dipartimento di Stato crei una strategia dettagliata per promuovere la sicurezza a lungo termine e il benessere degli armeni del Nagorno-Karabakh, attraverso importanti misure di sicurezza.». Questo piccolo popolo cristiano, con le sue chiese di cristallo, i monasteri antichissimi, i preziosi manoscritti miniati e le celebri croci di pietra è immagine forte per noi occidentali, immersi in un'inerzia distratta e malata; e non può non far venire in mente le gabbiette dei poveri canarini che i minatori portavano con sé come segnale di pericolo, perché morivano prima degli esseri umani in caso di perdite di gas...

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