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La Repubblica Rassegna Stampa
27.09.2023 Non tradiamo di nuovo gli armeni
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Repubblica
Data: 27 settembre 2023
Pagina: 35
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Non tradiamo gli armeni»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 27/09/2023, a pag. 35, l'analisi dal titolo "Non tradiamo gli armeni" di Bernard-Henri Lévy.

Bernard-Henri Lévy - Concordia
Bernard-Henri Lévy

NAGORNO KARABAKH: IL PUNTO DI SVOLTA CHE TARDA AD ARRIVARE -

Ci risiamo. Ecco un Paese, il Nagorno Karabakh, al quale per anni è stato detto che i suoi abitanti sono troppi nella terra che li ha visti crescere, che ha visto nascere e morire i loro progenitori e alla quale sono attaccati. Ecco che, una maledetta mattina, una pioggia di missili si abbatte sulle scuole, sugli ospedali, sulle chiese di Khanabad, Kornidzor e, naturalmente, Stepanakert, la capitale. Si contano i morti (più di mille). Si contano i feriti (quasi ventimila). Gli affamati, gli assetati, le vittime dell’assedio istituito nel dicembre 2022 dall’autocrate dell’Azerbaigian Ilham Aliyev si incamminano verso l’esilio, lasciandosi alle spalle tutti i loro beni, le loro case, i loro ricordi, i loro cimiteri, ogni cosa. Per adesso, sono alcune migliaia, ma l’Armenia — vicina e, in linea di principio, sorella — prevede di accoglierne centoventimila. L’Armenia ha letto le dichiarazioni di Aliyev che, urlando alla radio, ha detto che gli armeni dell’Alto Karabakh sono sub-umani che egli intende «cacciare come cani». L’Armenia conosce i deliri del suo padrone Erdogan che sogna un nuovo impero nel quale è a tutto il popolo armeno che domatori con i guanti di cuoio si arrogherebbero il diritto di mettere una museruola fatta di carri armati e di checkpoint — a tutti quelli che non saranno riusciti a scappare o non avranno voluto. E tutto questo accade in piena Assemblea generale delle Nazioni Unite, davanti ai popoli di tutto il mondo insieme, per una volta. E nessuno reagisce. Dico “si ricomincia” per un primo motivo. Il genocidio. Il primo. Mi riferisco a quello che, tra il 1915 e il 1916, vide i predecessori di Aliyev ed Erdogan inaugurare il secolo dei genocidi e, in un certo senso, inventarli: un genocidio come banco di prova, quasi seminale; un laboratorio del genocidio che i nazisti poi presero in considerazione, del resto, in quanto tale; e un genocidio che, per questo stesso motivo, fu uno dei due riferimenti (il secondo è la Shoah, beninteso) che dopo la Seconda guerra mondiale permisero al giurista ebreo polacco Raphael Lemkin di inventare il concetto moderno di genocidio. Grazie al cielo, non siamo ancora arrivati a tanto. Non si può mettere sullo stesso piano la sorte dei centoventimila rifugiati attesi a Erevan e quella del milione e mezzo di uomini, donne e bambini che, all’epoca, furono scuoiati o impalati, finiti a colpi d’ascia o di sega, dimenticati nei vagoni piombati nei quali erano stati rinchiusi, spinti a terra mentre ne erano fatti uscire e, nel caso di quelli sopravvissuti, abbandonati nei deserti siriani, lasciati morire di fame e di sete, divorati dagli avvoltoi, senza speranza. Il discorso, però, è identico. L’intenzione dei neo-ottomani — che, come è risaputo, non hanno mai ammesso il misfatto del 1915 — è senza alcun dubbio la stessa. In ogni caso, quando quelle immagini sono scolpite nella propria carne enella propria anima, quando si è nipoti o pronipoti di reduci o sopravvissuti, non si può — vedendo quello che stiamo vedendo — non pensare che quel genocidio potrebbe ripetersi. Non si può, quando si è loro amici, non averne paura insieme a loro. Dico che si ricomincia anche per un altro motivo. Il fatto di aver abbandonato il Nagorno Karabakh, queste proteste imbarazzate e fiacche della comunità internazionale, queste riunioni d’emergenza del Consiglio di Sicurezza che non approdano a nulla, richiamano alla mente altri episodi. I curdi Barzani usa e getta consegnati nel 2017, all’indomani della loro vittoria contro lo Stato Islamico, alle milizie filoiraniane nella zona di Kirkuk. I curdi di Rojava abbandonati, pur essendo nostri fratelli e nostre sorelle d’armi, a Erdogan dall’America di Trump. I democratici siriani che avevano scelto la libertà e che Obama ha lasciato frantumare da una doppia mascella, quella formata da Al Qaeda e dai Fratelli Musulmani per mezzo di Erdogan. Le donne afghane che ci siamo lasciati indietro in occasione della nostra disonorevole fuga da Kabul. E, naturalmente, l’Ucraina che, dieci anni fa, ha fatto una rivoluzione per unirsi all’Occidente che, quando Putin ha risposto con l’invasione della Crimea, noi abbiamo visto prendere atto del fatto compiuto. Neanche in questi casi si possono mettere le cose sullo stesso piano. So che nel diritto internazionale, da quando Stalin lo annetté nel 1921 all’Azerbaigian, lo statuto dell’Alto Karabakh è il contrario di quello della Crimea. Lo scenario, invece, è identico. Un popolo esce dalle tenebre sovietiche. Mantiene, all’inizio, un legame con la Russia. A poco a poco cambia idea, fa una rivoluzione, non delle rose ma di velluto, esprimendo la sua volontà di staccarsi. Noi li incoraggiamo. Li sommergiamo di buone parole. Poi, quando con i suoi duemila “soldati di pace” Putin preferisce arraffare tutto e consegnare il popolo ribelle al suo complice Erdogan, noi manifestiamo una volta di più la nostra incapacità di proteggere il nostro alleato. Da allora, la tragedia dell’Alto Karabakh e, un giorno, forse, dell’Armenia è un test, un banco di prova. O ci schieriamo, senza esitazioni, dalla parte di questo popolo amico e applichiamo all’Azerbaigian lo stesso tipo di sanzioni inflitte alla Russia, oppure la nostra parola non vale più niente, e l’alleanza con l’Occidente diventa ovunque più pericolosa che auspicabile; e perdiamo il beneficio strategico e morale del nostro slancio in Ucraina; e tra l’antico impero democratico e i Cinque Re massacratori all’offensiva si riaccende ancora una volta il conflitto ed è a nostro discapito che si ribaltano le carte della grande partita planetaria. 
(Traduzione di Anna Bissanti)

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