Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 23/09/2023, a pag. 19, l'analisi di Francesca D'Aloja dal titolo 'Il pianto nascosto del clown'.
Jerry Lewis
L’anno prossimo sarà (forse) possibile vedere il più misterioso e controverso film della storia del cinema: nel 2024 scadrà infatti il divieto di divulgazione imposto dal regista, nonché interprete e produttore, che nel 2014, tre anni prima di morire, aveva consegnato una copia alla Biblioteca del Congresso di Washington con la clausola che per almeno dieci anni rimanesse lì sigillata. Il titolo del film, noto ai cinéphile che attendono trepidanti la scadenza del vincolo, è The day the clown cried (Il giorno in cui il clown pianse), girato nel 1972 da una delle più popolari personalità del cinema mondiale, l’uomo che ha fatto sbellicare dalle risate intere generazioni: Jerry Lewis. Cosa c’era di così terribile in quel film da indurre l’autore, che per quel progetto aveva sacrificato anni, soldi e salute, a disconoscerlo, dichiarando, nelle rare interviste in cui ha affrontato l’argomento: “Ero imbarazzato, provavo vergogna per il lavoro fatto e sono grato di aver avuto il potere di deciderne il destino, impedendo a chiunque di vederlo. Era tremendo, tremendo, tremendo (bad, bad, bad)…”?
Nella filmografia di un cineasta, tanto più se sconfinata come nel caso di Jerry Lewis (90 film di cui 26 da regista), la possibilità di realizzare film “tremendi” è infinitamente superiore a quella di produrre capolavori, immaginiamo quanti titoli sopravviverebbero se si applicasse lo stesso principio. Nessuno può decidere se un film, il cui giudizio dipende dal gusto personale (e da molto altro), sia degno o meno di essere visto. Nessuno, tranne Jerry Lewis. Una decisione inappellabile che lo ha portato, in seguito, ad abbandonare le scene per un decennio, provato da una profonda depressione. Naturalmente le ragioni sono molto più complesse di un semplice giudizio estetico. Quella parola, bad, è la sintesi di un abisso. Un abisso nel quale il geniale Picchiatello è sprofondato, tentando, a suo modo, di raccontare l’irraccontabile. D’altra parte il vero comico non è forse ossessionato da ciò che non è autorizzato a dire? Le carriere di molti stand-up comedian si costruiscono su questa sfida, nonostante l’insidia più pericolosa: il pubblico. Solo la complicità del pubblico, giudice supremo, può renderla vincente, altrimenti è vana. In questo incredibile caso di suicidio creativo, la sentenza è giunta ancor prima di essere sottoposta al giudizio degli spettatori, e la ragione, in sintesi, è la seguente: dal comico che ha dispensato smorfie e risate non si sarebbe tollerato un film sui campi di concentramento nazisti, poiché questo è il tema trattato, il cuore di tenebra del film, l’abisso innominabile. Il personaggio interpretato da un Jerry Lewis quasi irriconoscibile nell’aspetto dolente ed emaciato è l’antitesi di tutti i ruoli che lo hanno reso celebre. Abbandonati i panni del babbeo imbranato con la vocetta da bambino petulante, l’attore si concede il primo ruolo drammatico della sua carriera, calandosi nella personalità cupa di Helmut Doork, clown celeberrimo caduto in disgrazia. Umiliato dal padrone del circo nel quale lavora che gli preferisce un rivale emergente, l’ex “clown più famoso d’Europa” cerca sollievo nell’alcool. Alla moglie che tenta di consolarlo, Helmut risponde con la battuta: “I can’t handle the pain of being a has-been!”, (has-been, espressione idiomatica, e dunque intraducibile che sottintende la perdita di uno status: “Non sopporto il dolore per non essere più quel che sono stato”). Una frase che Jerry Lewis avrebbe potuto pronunciare nella vita reale. La sua stella, in quei primi anni 70, cominciava a perdere lucentezza dopo aver brillato per almeno un ventennio, prima in coppia con Dean Martin poi da solo, in film e spettacoli dagli incassi stratosferici, e questo è solo uno dei tanti elementi che contribuiscono a spiegare la bizzarra sorte del film “invisibile”. Ma torniamo alla sceneggiatura, peraltro disponibile online. Siamo nella Germania nazista. Il precipizio verso cui si sta dirigendo il suo paese non sembra riguardare Helmut Doork, più preoccupato per il proprio destino che per quello del mondo. Nel locale dove abitualmente trascorre le serate a bere, si lascia andare, ubriaco, a improvvidi improperi nei confronti di Hitler. Non si accorge della presenza di due ufficiali della Gestapo che lo arrestano seduta stante. Spedito in un campo destinato agli oppositori politici dove resterà per quattro anni, Doork entra in conflitto con i compagni di prigionia dai quali mantiene una sprezzante distanza. Non è un personaggio positivo, il clown Doork: pecca di superbia, è arrogante, egoista. Quando i compagni di sventura lo mettono alle strette, forzandolo a esibirsi per loro (“Facci ridere…!), lui rifiuta altezzoso, poi, sotto minaccia, inscena maldestramente alcuni sketch ricavandone però il dileggio dei compagni. Ma è proprio quando questi si allontanano delusi, che giunge da lontano una timida risata. Un bimbetto, aggrappato alla recinzione che separa gli ebrei dagli altri prigionieri, sta assistendo divertito alla scena. A lui si uniscono altri ragazzini, e le risate si fanno più chiassose. Elettrizzato dalla presenza di un pubblico infantile, il suo pubblico, Helmut si risveglia dal torpore e per loro metterà in gioco la sua vita. E’ un punto di svolta del plot e del personaggio, che da quel momento cambia atteggiamento. Sfidando le regole del campo che vietano ogni interferenza fra prigionieri, Helmut si industrierà per far ridere ancora i piccoli ebrei, ma verrà presto scoperto e il comandante, dopo avergli intimato di interrompere i rapporti con i prigionieri, ne intuisce il potenziale e gli propone, ventilando un possibile rilascio, di “intrattenere” gli ignari bambini mentre vengono condotti alle camere a gas. Come un malvagio pifferaio magico avrà il compito di accompagnarli fino all’ingresso della loro tomba. La promessa liberazione gli fa accettare la proposta, ma una volta giunto sulla soglia, l’arido Doork si scorda di se stesso. Il sorriso di una bellissima bambina che gli tende fiduciosa la mano sarà la chiave di volta del suo destino. Helmut ricambia il sorriso, afferra la mano della bimba, e insieme entrano nella camera a gas seguiti da tutti gli altri bambini. Non si tratta di redenzione, Doork non ha nulla da espiare, ma di fronte al più vile dei soprusi, il clown si toglie la maschera e sceglie di essere un uomo. E’ una scena potentissima, che da sola vale il film. Posso dirlo perché ho avuto la fortuna di vederla: sullo schermo del mio computer senza alcun supporto sonoro, priva cioè di tutto ciò che rende magico il cinema, mi ha commosso fino alle lacrime. Ho visto anche altre sequenze, compresa la scena in cui il clown cattura l’attenzione dei bambini nel campo. E sono tutte, tutte, bellissime. Ne ho avuto la possibilità perché nel 2016 una decina di foto di scena e alcune sequenze finirono inspiegabilmente in rete, per poi essere immediatamente rimosse. I più astuti hanno fatto in tempo a scaricare le poche immagini disponibili, e uno di loro, Matteo Pollone (che ringrazio), me ne ha fornito l’accesso. Ora, questa rivelazione di innegabile bellezza scompiglia le carte e rende ancor più incomprensibile l’autodafé. Non si tratta di un giudizio personale, c’è chi, ben più titolato di me, ha espresso lo stesso stupito incanto. Un famoso critico dei Cahiers du cinéma, Jean Michel Frodon, aveva avuto l’occasione, nel 2003, di assistere all’intero film (o perlomeno alla sua versione più completa) grazie alla complicità del regista Xavier Giannoli che per motivi che non ha mai voluto rivelare era entrato in possesso di una copia pirata del film. Giannoli fece promettere al critico di mantenere il segreto, salvo poi dichiarare in una intervista il possesso del Vhs e l’avvenuta visione insieme a Frodon, il quale di conseguenza si sentì libero di esprimere il proprio giudizio su The day the clown cried: “E’ un film bello e importante. Affronta in maniera audace il tema dell’Olocausto attraverso ambientazioni e costumi volutamente stilizzati, adottando un linguaggio favolistico senza alcuna pretesa di realismo. Una favola cupa e amara alla Fratelli Grimm per intenderci, che lo rende fortemente inquietante. E’ forse questa la ragione per cui è stato brutalmente respinto dai pochissimi che lo hanno visto all’epoca”. Frodon si riferisce alla famosa proiezione per pochi intimi (sette persone) avvenuta a ridosso del montaggio del film. Vi parteciparono, fra gli altri, gli autori del soggetto originale Joan O’Brian e Charles Denton, in accesa polemica sin dalla stesura della sceneggiatura che, a loro dire, non corrispondeva alla loro concezione del film. Effettivamente Jerry Lewis, contattato dal produttore Nathan Wachsberger dopo che in molti avevano declinato l’offerta, aveva modificato l’impianto originale, a fronte del contratto che lo impegnava come attore, regista e sceneggiatore. Un’opportunità che il comico aveva accolto, nonostante l’iniziale reticenza, come una svolta per la propria carriera, che lo avrebbe elevato al rango del suo mito Charlie Chaplin (da Lewis definito “The King”). Al personaggio originale fu cambiato il nome, e alcuni tratti del carattere furono plasmati sulle capacità interpretative di Lewis, che rese un poco meno respingente la personalità odiosa e meschina del clown ritratto da O’Brian e Denton, i quali accusarono Lewis di aver trasformato il loro film in “una farsa sentimentale”.
Non so quali fossero le loro intenzioni, ma basta leggere la sceneggiatura per smentirne le accuse: se c’è qualcosa in cui il film non indugia è il sentimentalismo e la retorica. E’ vero semmai il contrario, il copione aspro e amarissimo (con alcune scene davvero crude) e l’assenza dell’happy ending tanto caro a Hollywood ne spiegano, in parte, l’ostracismo. C’è una sola battuta, peraltro bellissima, che strizza l’occhio al sentimento: alla domanda “Tu hai dei bambini?” rivolta a Helmut da uno dei piccoli ebrei, il clown risponde: “No, ma adesso li ho”. Molti i passaggi di scrittura formidabili, su tutti una frase del reverendo Keltner (l’unico compagno di prigionia con il quale Helmut stringe un rapporto di fratellanza), che sarebbe potuta diventare la frase di lancio perfetta: “Quando il terrore regna, una risata è il più spaventoso di tutti i suoni”. Prima di The day the clown cried nessun film era mai stato ambientato nei campi di concentramento. Erano stati realizzati film sulla guerra, sul nazismo, ma i luoghi dello sterminio, fino a quel momento, erano apparsi solo nei documentari storici. Nessuno avrebbe osato rappresentare l’orrore con un prodotto di finzione. Che se ne occupasse un comico era davvero troppo, e forse La vita è bella di Roberto Benigni, a cui spesso si fa riferimento citando il film di Lewis, se fosse uscito allora avrebbe avuto lo stesso destino, chissà. Arrivare in anticipo talvolta non paga. Fra i tanti risvolti inspiegabili colpisce la totale assunzione di responsabilità da parte di Jerry Lewis (“bad bad bad”), che sembra escludere (almeno pubblicamente) il “concorso di colpa” di altri soggetti, sui quali svetta l’inaffidabile produttore Wachsberger, il quale sparì (letteralmente) alla seconda settimana di riprese lasciando tutti a secco (JL dovette vendere alcune sue proprietà per poter andare avanti a sue spese), non rivelò al regista che l’opzione sui diritti era scaduta così da legittimare gli autori del soggetto a intentare una causa, tantomeno si adoperò per impedire che gli studi di montaggio svedesi (le riprese si svolsero in Svezia) rendessero indisponibile parte del girato in seguito ai mancati pagamenti. La lavorazione del film fu estremamente complicata non solo da un punto di vista produttivo ma anche a causa delle condizioni di salute di Jerry Lewis, provato da un dolore cronico alla schiena (causato da un incidente sul set) e dalla conseguente dipendenza da un potente antidolorifico, debilitato dalla mancanza di sonno (tre ore a notte per tutti i 113 giorni di riprese) e da una dieta drastica a cui si era sottoposto, perdendo quindici chili, per calarsi nel personaggio. Da perfezionista maniacale, diceva: “I put all the pain in the screen”. Un dolore visibile nell’impressionante trasfigurazione fisica messa al servizio del più imprevedibile dei ruoli interpretati da Joseph Levitch, in arte Jerry Lewis. “Sul set si respirava un’atmosfera speciale” ha riferito il suo aiuto regista, soffermandosi sull’ultima scena: “Jerry aveva deciso di accompagnare le riprese con una musica di sottofondo, e aveva scelto Wagner. C’era una grande tensione, era la scena più importante del film. Quando ho annunciato ‘Musica! Motore! Azione!’ la fila di bambini ha cominciato ad avanzare lentamente verso la porta… Gli occhi di tutti i componenti della troupe si sono riempiti di lacrime”. Così ricorda Jerry Lewis, a proposito di quel giorno: “Ero terrorizzato, ma anche esausto, era l’ultimo giorno di riprese. Stavo immobile, col mio costume da clown, le macchine da presa pronte… Improvvisamente i bambini, senza che dicessi loro nulla, si sono fatti avanti, avvinghiandosi alle mie gambe, alle mie braccia, il loro sguardo era così autentico… Ho sentito il loro amore attraversarmi, e ho pensato: ‘E’ questo che ho cercato per tutta la mia vita’”.
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