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L’ora del lupo Valerij Panjuškin Traduzione dal russo di Claudia Zonghetti e/o euro 18 “Voglio che conosciate la verità. Poi, se vorrete potrete sempre optare per il cinismo e per il razzismo in cui si sta impaludando la nostra società”.
Sono parole di Anna Politkovskaja, la giornalista russa inviata del settimanale indipendente Novaja Gazeta uccisa nel 2006 per la sua determinazione nel cercare la verità e nel denunciare gli orrori del regime putiniano di cui era testimone.“Una che non conosceva le mezze misure e non si fermava di fronte a niente” diceva di lei Mikhail Gorbaciov. Fra i giornalisti che hanno saputo raccogliere l’eredità di Anna Politkovskaja c’è Valerij Panjuškin, autore radiofonico e scrittore la cui collaborazione con testate giornalistiche e televisive come Echo Moskvy, Kommersant, Snob lo ha reso una delle voci di spicco nell’opposizione e nella critica al regime putiniano. La casa editrice e/o, sempre attenta all’attualità e a proporre autori di talento, che nel catalogo annovera già due titoli del giornalista russo (“12 che hanno detto no. La battaglia per la libertà nella Russia di Putin” e “L’Olimpo di Putin”), pubblica ora un interessante reportage intitolato “L’ora del lupo”, in cui Panjuškin raccoglie le testimonianze di profughi della guerra in Ucraina, visitando i campi dei rifugiati in Russia e attingendo alle storie di tante persone che hanno condiviso il proprio dramma sui social media. Anche Valerij Panjuškin, tre mesi dopo lo scoppio della guerra, ha lasciato il suo paese per la Lettonia e ora vive a Riga insieme a tanti russi che sono fuggiti per non piegarsi alla propaganda e alle menzogne di Putin e per poter crescere i bambini “in un mondo aperto”.
E’ un libro che nasce da una sorta di urgenza, di necessità. All’inizio dell’invasione Panjuškin sente di dover fare qualcosa per contrastare la guerra perché non riesce a credere a quanto sta accadendo. Per ragioni di età non può farsi mandare come inviato in Ucraina ma può dare comunque il suo contributo raccontando le storie di quanti hanno dovuto lasciare il proprio paese. “Già all’inizio dell’invasione stavo malissimo, ho capito che dovevo fare qualcosa. Raccontare le storie di quanti erano costretti a fuggire è stato il mio modo di oppormi al regime”. Voleva mostrare che la guerra è personale, riguarda il destino di vite uniche e irripetibili e che non bisogna solo focalizzarsi sui cannoni che sparano ma sulle esistenze degli individui che con la guerra vanno a rotoli.
Con gli strumenti del cronista Panjuškin dà vita a un reportage che non cede mai al pietismo e ci mostra il conflitto nella sua dimensione politica e privata focalizzando l’attenzione sulla condizione dei profughi all’indomani dell’invasione russa. Ogni capitolo racchiude sia le testimonianze dirette raccolte dall’autore, sia le sue riflessioni sulla pluralità delle tematiche affrontate. Nelle prime pagine, inoltre, apre uno squarcio nel suo spazio familiare e pone l’accento sul difficile rapporto col padre, un uomo ormai anziano che, pur nella consapevolezza della realtà tragica della guerra, è irretito dalla propaganda russa, rendendo così impossibile per l’autore confrontarsi e discutere di temi attuali con il genitore. “Mio padre, invece, gridava come un ossesso. Ed è ciò che fa chi è consapevole di una realtà tremenda e non può accettarla, perché accettarla è peggio che morire”.
Uno fra i pregi del libro risiede nella capacità del giornalista di rappresentare l’umanità nella tragedia e di far vivere al lettore, quasi in presa diretta, le emozioni, la sofferenza, la paura per il futuro che i profughi veicolano con le loro testimonianze: dalla decisione di partire dalla sera alla mattina con pochi oggetti personali nella valigia per andare in un paese sconosciuto, alla difficoltà di procurarsi denaro e mezzi di trasporto, dal timore di essere colpiti dai militari lungo la strada alle più elementari necessità igieniche, sanitarie, alimentari il cui soddisfacimento si dava per scontato nella vita “normale”. Sono molti i racconti contenuti nel libro che mi hanno colpito e i nomi di città che fino a un anno fa erano pressochè sconosciuti (Mariupol, Bucha, Chernihiv, Zaporižžja, Kyiv) sono diventati familiari e ritornano nelle pagine per raccontare il dramma del popolo ucraino.
Tante storie, tante vite che si intrecciano nel dramma della guerra che nei primi giorni mette in luce l’incredulità e l’incapacità delle persone di adattarsi a una situazione inimmaginabile, senza punti di riferimento. “Un civile non può essere pronto a vivere in guerra: è un’assurdità”. Col trascorrere delle settimane e l’intensificarsi dei bombardamenti molti decidono di fuggire su mezzi di fortuna messi a disposizione dalle associazioni volontarie verso occidente con lunghe ed estenuanti code ai confini, altri invece si dirigono a Est verso la Russia. Qui nei campi profughi in territorio russo era possibile, almeno per le prime settimane parlare con chi era stato costretto a scappare dall’Ucraina. “Oggi – racconta l’autore - sarebbe impossibile perché l’intelligence ha preso il controllo dei centri e non farebbe mai avvicinare un giornalista”.
E poi ci sono i volontari di Cash for Refugees che, in parte con soldi propri e in parte con denaro proveniente da donazioni, vanno al confine ucraino a distribuire denaro ai profughi. “Erano liberi prima della guerra – dice Alex uno dei fondatori – potevano scegliere se comprare un caricatore per il cellulare o delle racchette da badminton. Con il denaro restituiamo loro un po’ di libertà…”.
Come Aleksandr Solzenicyn in Arcipelago Gulag ha inventato un coro di personaggi che raccontano ciascuno la propria storia, così Valerij Panjuškin ci regala un libro d’impronta corale dove ogni singola voce è portatrice di un messaggio di verità che non possiamo eludere per non diventare complici di chi vuole occultarla. Giorgia Greco |
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