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La Repubblica Rassegna Stampa
16.09.2023 Iran, così gli attivisti fanno uscire le notizie
Analisi di Gabriella Colarusso

Testata: La Repubblica
Data: 16 settembre 2023
Pagina: 19
Autore: Gabriella Colarusso
Titolo: «Il network di Azadeh: 'Così facciamo uscire le notizie dal Paese'»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 16/09/2023, a pag.19, con il titolo "Il network di Azadeh: 'Così facciamo uscire le notizie dal Paese' ", la cronaca di Gabriella Colarusso.

Gabriella Colarusso (@gabriella_roux) | Twitter
Gabriella Colarusso

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La macchina aspetta in strada con il motore acceso. Azadeh afferra lo zaino preparato in fretta — cibo, libri, qualche maglione per l’inverno alle porte — saluta velocemente i suoi ed esce, come fosse una sera qualunque. È la fine di settembre del 2022. Fuori, l’Iran è in tumulto. La morte di Mahsa Amini, 22 anni, arrestata dalla polizia morale il 13 e spirata tre giorni dopo all’ospedale Kasra di Teheran, ha incendiato il Paese. Dal Nord curdo al Sud belucio, dalle città alle campagne, un’intera generazione è scesa in piazza per chiedere giustizia, rivendicando diritti civili e libertà politiche e per la prima volta, in una sfida chiara e diretta alla teocrazia, la fine della Repubblica Islamica fondata dall’ayatollah Khomeini 44 anni fa. Azadeh è una attivista per i diritti umani già passata sotto la scure delle forze di sicurezza, arrestata in passato per il suo impegno, ma quando scoppiano le proteste per Amini non si tira indietro. Si unisce alle manifestazioni come migliaia di donne e giovani, nelle università, per strada, nei caffè, con lo slogan: Jin, Jiyan, Azadi , Donna, Vita, Libertà. La sua, dura poco. «Mi cercavano e sapevo che sarei stata arrestata, così ho deciso di nascondermi», ci racconta in una serie diconversazioni avvenute nell’arco di sei mesi. Il viaggio dura tutta la notte, lei resta distesa sui sedili posteriori dell’auto, il respiro corto. All’alba è in una safe house , una casa sicura, la prima di una serie in cui si sposterà per sfuggire alla repressione. «Hanno interrogato i miei familiari, volevano sapere dove fossi, ma non avevo detto a nessuno dove sarei andata». Grazie a una rete di vecchi amici non impegnati in politica riesce a trovare e cambiare rifugi: «I proprietari delle case che mi ospitavano non sapevano chi fossi o cosa facessi ». Esiste, racconta, «una rete di persone che vive nascosta in Iran e un numero di iraniani che offre loro rifugio». Attivisti ma anche cittadini comuni che cercano di fare quello che in molti Paesi sarebbe scontato e senza rischi: informazione. Comunicare con giornalisti stranieri, condividere notizie sulle proteste in Iran può costare un’incriminazione per spionaggio, significa l’ergastolo o, peggio, la condanna a morte. In questi mesi sono stati arrestati più di 70 reporter. Niloufar Hamedi e Elahé Mohammadi, le due giornaliste che hanno coperto la morte e i funerali di Masha, sono in carcere da 10 mesi, accusate di lavorare per la Cia. La rete funziona su due livelli. «Alcuni dei nostri si disperdono tra i manifestanti per scattare foto e video». I “nodi” della rete, a casa, si occupano di diffondere il materiale «usando cellulari non registrati, che non accettano sim iraniane e i Vpn per la connessione, ma è difficile trovarne di sicuri perché molti sono gestiti dai pasdaran ». Azadeh resta chiusa in casa, poche uscite per prendere aria, parla con i familiari degli arrestati, con gli avvocati, condivide le notizie. «Non ho mai usato carte di credito o bancomat, solo contanti. Ogni tanto vendevo i gioielli che mi ero portata dietro». I cortei proseguono fino a febbraio e oltre, in alcuni casi le manifestazioni si fanno violente, la repressione sempre più dura. Gli avvocati denunciano abusi e torture in carcere e vengono arrestati a loro volta. Arrivano le prime condanne a morte, le prime esecuzioni. Dopo sei mesi il bilancio è orribile: 500 morti, dice Amnesty International, tra cui 70 poliziotti, più di 20mila persone arrestate. La paura dirada le manifestazioni, la mano dura della Repubblica Islamica riesce a contenere l’incendio. In primavera Teheran, per mesi isolata e sanzionata in Occidente per le violazioni dei diritti umani, riesce a riavviare un dialogo indiretto con Washington con cui chiude un accordo sullo scambio di prigionieri. Agli inizi di agosto parte una nuova ondata di arresti, gli ultraconservatori al governo vogliono evitare proteste nell’anniversario della morte di Amini e arrivare indenni alle elezioni parlamentari dell’anno prossimo. Ma il fuoco cova sotto la cenere. «Può darsi che in questi giorni non succeda nulla perché il regime si è preparato, ma alla prima misura economica contestata, alla prima casa caduta per corruzione, scoppieranno altre rivolte perché le ragioni della nostra rabbia sono tutte lì — ragiona Azadeh. Non si tratta solo del velo, che pure è importante: i diritti delle donne sono cruciali e tante di noi continuano a sfidare i divieti nonostante tutto. Ma è una lotta più profonda contro l’oppressione, le leggi ineguali e disumane basate sulla Sharia, la corruzione, la distruzione dell’ambiente, i soldi spesi per le armi e la sicurezza invece che per la ricerca e le medicine, la pena di morte…». Eppure, una grossa parte della popolazione in questi mesi è rimasta a guardare. «È l’Iran più tradizionale, ma nemmeno loro hanno più fiducia nel Sistema. Persino i poliziotti oggi criticano il regime. Molti però hanno paura di quello che può succedere dopo, temono una guerra civile e la propaganda su questo è efficace». Azadeh è riuscita a comunicare con i suoi grazie a un amico che ha fatto da corriere. Una sola volta, un biglietto scritto a mano per dirgli di non preoccuparsi, e che gli vuole bene. «È difficile e doloroso stargli lontano. Ma è anche l’unico modo di tenerli al sicuro».

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