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Cecilia Sala - L'incendio - 19/09/2023
L'incendio
Cecilia Sala
Mondadori

Su un treno notturno con la tappezzeria di velluto che andava in direzione sud, nel deserto verso Kerman, ero con un’amica, Nabila, e per risparmiare avevamo preso due posti in una cabina comune, le altre due cuccette erano occupate da uomini. Non riuscivo ad addormentarmi, avevo il torcicollo, lei mi sentiva mentre continuavo a rigirarmi nel letto e si è offerta di farmi un massaggio. Eravamo senza velo, pronte per dormire, se fosse entrato un controllore avrebbe visto il suo corpo magro e i suoi capelli lunghi fino al sedere tinti di fucsia, i suoi due piercing all’orecchio e l’enorme tatuaggio su tutta la schiena che le sbucava dalla canottiera. Eravamo su un mezzo del trasporto pubblico, per di più con due maschi in cabina: io ero spaventata dalle possibili conseguenze se qualcuno avesse aperto la porta scorrevole e ci avesse viste con i capelli liberi, lei non lo sembrava affatto. Nabila fa kick boxing a livello agonistico, è una lottatrice e una campionessa che vince medaglie in giro per il paese. E’ una ragazza colta con un atteggiamento di perenne sfida. Ha votato per i conservatori, anche se avrebbe votato più volentieri il generale Qasem Soleimani, se fosse rimasto vivo e se si fosse candidato, che il grigio presidente Ebrahim Raisi. Nabila è una giovane donna fedele alla Repubblica islamica e una ragazza a cui piacciono le ragazze che su Instagram segue decine di atlete-influencer e in quel periodo aveva una passione in particolare per Rosamaria Montibeller, una pallavolista di origine brasiliana con 1,2 milioni di follower e un’imprenditrice digitale del proprio corpo. Quando passeggiavamo insieme per Teheran, Nabila guardava con fastidio le sue coetanee poco coperte e troppo attillate, tutte comunque molto più coperte di come appaia Rosamaria Montibeller nelle foto a cui Nabila mette like. “Figurati se mi scandalizzano i corpi delle femmine, queste qui le trovo tristi perché seguono la moda e non credono in niente, non sanno chi sono e da dove vengono. Le peggiori non sono le ricche occidentalizzate, ci sono sempre state, le peggiori sono le ragazze cresciute come me nei palazzoni della periferia sud che hanno smesso di vestirsi con criterio e andare in moschea, non per scelta politica, ma soltanto per sperare di essere scambiate per ragazze ricche, per assomigliare a quelle. A me piacciono le occidentali, ma sono diversa”. 

Ci siamo sentite il giorno in cui è morta Mahsa Amini, prima che cominciassero i cortei e quando internet funzionava ancora nel paese: era furente. Sapeva che ciò che è successo a Mahsa sarebbe potuto capitare a lei quella notte in treno verso Kerman o in molte altre notti. Erano tante le donne religiose e conservatrici traumatizzate il 16 settembre: in Iran esiste una porzione di popolazione radicale e militante e una porzione più ampia che sostiene la Repubblica islamica ma non crede sia giusto imporre il velo con la violenza a chi non vuole indossarlo, e pensa che una ragazza fermata in una stazione della metro e riconsegnata cadavere pochi giorni dopo alla famiglia sia un’oscenità, “un’onta collettiva e una enormità contro Dio”, come la chiama Nabila. Il 13 settembre 2022 la polizia religiosa aveva fermato Mahsa Amini mentre era in vacanza con i suoi genitori e il fratello a Teheran, da quel momento lei era rimasta costantemente sotto custodia. L’avevano caricata su un pulmino e l’avevano portata a una stazione di polizia. L’avevano interrogata e poi lasciata in sala d’aspetto. Qui, come si vede dalla registrazione delle telecamere a circuito chiuso, a un certo punto era collassata. L’avevano trasferita in ospedale, era in coma. Due giornaliste iraniane l’avevano raggiunta in clinica, avevano parlato con i parenti e scattato foto. Mahsa non avrebbe più ripreso coscienza e sarebbe morta tre giorni dopo. La polizia religiosa ha detto che loro non l’hanno toccata. La versione data è che Mahsa abbia avuto un infarto all’improvviso. La famiglia sostiene che non sia possibile, che era una ragazza di 22 anni in salute e non aveva mai avuto problemi cardiaci. Spiega che i poliziotti si sono rifiutati di condividere i risultati dell’autopsia e hanno chiesto ai genitori di non parlare con i media. Anzi di non parlare proprio con nessuno. Hanno chiesto di seppellire Mahsa nella notte e di nascosto perché avevano capito quale reazione il suo funerale avrebbe innescato. Il presidente Raisi aveva promesso “un’indagine rigorosa” che avrebbe dovuto concludersi con una punizione esemplare per i responsabili. Tutti i vertici avevano fatto le condoglianze alla famiglia pubblicamente e da quel giorno la polizia religiosa era stata fatta sparire dalle strade. Raisi aveva tentato di fermare sul nascere una protesta che gli sarebbe sfuggita di mano, era preoccupato non perché credesse che i dissidenti fossero la maggioranza nel paese, ma perché sapeva che, anche quelli che non volevano rovesciare il regime come Nabila, avrebbero capito la rabbia degli altri e questa volta non l’avrebbero osteggiata. E’ stata la frustrazione collettiva, che si è trasformata in solidarietà silenziosa e diffusa, a rendere questa protesta persistente e imprevedibile, diversa dalle precedenti. Forouzan mi ha raccontato come si sono organizzati nelle prime ore: “Non c’è un bagno pubblico di Teheran – dai ristoranti agli uffici postali, dalle stazioni alle università – le cui pareti non siano colonizzate da noi. Se vuoi manifestare per Mahsa, non ti serve internet e per sapere dove e quando ti basta entrare in una qualsiasi toilette della città”. Tra gli adesivi della protesta e i volantini con gli appuntamenti, ci sono i nomi dei gruppi Telegram da seguire, le istruzioni scritte con il pennarello su come evitare gli arresti, schermare le comunicazioni in chat e curare le ferite. I manifestanti possono contare sulla solidarietà degli altri e ogni volta che comincia una carica chi scappa suona a casaccio ai citofoni lungo le strade e c’è sempre qualcuno che apre un portone e offre un rifugio. Gli uomini cantano: “Ucciderò chiunque ammazzerà mia sorella”. Le ragazze: “Donna, Vita, Libertà”. All’università Sharif gli studenti optano per il coro più clamoroso: “Khamenei è peggio di Yazid!”. 

E’ una scelta delle parole particolarmente ficcante perché è legata alla tradizione – è impossibile da spacciare per lavaggio del cervello della propaganda straniera, la formula usata dalle autorità per spiegare la ribellione e discolparsi – e, allo stesso tempo, è la più infamante per gli ayatollah. Yazid è l’assassino dell’Imam Hussein, il figlio di Ali, la guida religiosa martire che ha fondato con il proprio sangue l’islam sciita, separandolo da quello sunnita nella scissione della dinastia di Maometto. Il martirio di Hussein per gli sciiti è l’equivalente della Passione di Cristo per i cattolici. Gli studenti della Sharif, più di altri gruppuscoli di manifestanti, avevano chiaro l’obiettivo: parlare alla fetta maggioritaria della popolazione iraniana che crede in Dio ma vede e patisce i difetti della Repubblica islamica. Il messaggio è: abbiamo la stessa storia e parliamo lo stesso codice, noi manifestanti non siamo marziani, ma questo sistema non funziona, ci impoverisce ed è crudele, pericoloso. Per parlare a un pubblico internazionale, quello su Yazid è uno slogan sbagliato perché incomprensibile, ma gli studenti sono lucidi e non coltivano la speranza che gli stranieri li aiutino dal punto di vista pratico, quindi, almeno in questa fase, non è ai media occidentali che bisogna rivolgersi. La cosa utile da fare è provare a spostare verso di sé il pendolo che misura il consenso della maggioranza silenziosa, quella delusa dal regime ma altrettanto sospettosa nei confronti di un’alternativa politica improvvisata e dei destabilizzatori. Quella comunità di semplici cittadini ha già dimostrato di poter cambiare il destino del paese molte volte, l’ultima con la rivoluzione che nel 1979 era sostenuta dalla maggioranza degli iraniani e che inizialmente aveva istanze varie e confuse. La rivoluzione non era nata come la rivolta del clero ma, una volta crollata la monarchia, il clero ha vinto perché rispetto alle altre organizzazioni i suoi componenti non discutevano la gerarchia interna, e perché aveva un consenso largo e una presenza capillare sul territorio che arrivava fino alle minuscole comunità rurali di fedeli. Perché era meglio organizzato e più determinato dei marxisti, dei nazionalisti, delle femministe, dei maoisti e del socialismo islamico. I persiani avevano già costretto il regime a piegarsi alle istanze di una protesta nel 1891. Avevano fatto una rivoluzione nel 1911 con cui avevano conquistato il diritto ad avere una Costituzione e un Parlamento da eleggere. E avevano messo in scena una rivolta travolgente anche nel 1951, che è fallita soltanto quando lo scià ha ottenuto il supporto di Stati Uniti e Regno Unito per un colpo di Stato contro un primo ministro indipendente e popolare, Mohammad Mossadeq. “Gli iraniani non sono un popolo mansueto, hanno un master in rivoluzioni. Basta saper toccare i tasti giusti” mi dice Assim, consapevole che le rivoluzioni si fanno sfruttando rabbie che hanno ragioni diverse e vanno in direzioni diverse. Ammis studia Ingegneria aerospaziale alla Sharif ed è uno dei molti leader della protesta. “Il momento in cui il potere crolla è disordinato e le istanze della piazza sono confuse. Ma bisogna saperle sfruttare tutte per raggiungere quell’apice. Soltanto dopo ce la si gioca per decidere quale corso dare agli eventi, per scegliere le regole del futuro”. Molta dell’indulgenza dei cittadini nei confronti dei manifestanti è dovuta a una più generale insoddisfazione. Nel 2019 a Teheran avevano protestato i poverissimi, i disperati, i cosiddetti “senza scarpe”. Nel 2021, a Isfahan, i contadini avevano riempito uno stadio perché non avevano abbastanza acqua per lavorare, la polizia aveva incendiato le tende in cui si erano accampati per il presidio e c’erano stati scontri in città. “La crisi e l’inflazione pesano ovunque, per la prima volta anche su famiglie ricche come la mia. Mia madre non si era mai ritrovata a stare attenta ai centesimi andando a fare la spesa”. Le minoranze non persiane, dal Kurdistan al Baluchistan fino al Khuzestan “sono un pagliaio pieno di erba secca a cui basta una scintilla per esplodere”. Dopo le elezioni vinte da Raisi nel 2021, molti elettori hanno perso la speranza che votare sia il metodo giusto per incidere sulla politica nazionale. “La gente è arrabbiata e una rivoluzione non è una campagna elettorale: non ci si divide prima sulle soluzioni da dare ai problemi, ma dopo. Prima ci si libera, poi ci si organizza”. Nella visione di Assim, gli insoddisfatti più interessanti sono quelli che hanno le armi. Nel 1979 la rivoluzione ha avuto successo in un momento preciso: il 12 febbraio l’esercito si era già ammutinato e quando lo scià chiese all’aviazione di arrestare i militari che si rifiutavano di fare il proprio dovere, quelli gli risposero: “Ora noi siamo neutrali rispetto al corso degli eventi”. Nel momento in cui anche i piloti lo tradirono, il monarca era finito. Assim crede a una teoria che a Teheran circola da tempo, ma si può pronunciare soltanto sottovoce: non esiste nessuno autorevole quanto l’ultraottantenne Ali Khamenei che possa ricoprire in modo credibile il ruolo di Guida suprema quando lui non ci sarà più, e i pasdaran aspettano quel preciso momento per scippare il potere al clero. “Davvero sei convinto che se voi e i pasdaran vi trovaste casualmente dalla stessa parte in questo frangente, a missione compiuta avreste la possibilità di vincere contro di loro?” “La mia fiducia nella nostra forza non è rilevante. Sappiamo tutti che, fino a quando chi ha le armi non tradisce chi ha lo scettro, il sistema non crolla, magari si incupisce e si indebolisce, ma rimane al suo posto”. Mentre cantano, alla Sharif le compagne di Assim si tolgono l’hijab, lo fanno roteare e poi lo gettano assieme a quello delle altre e danno fuoco al mucchietto di stoffa a terra. Filmano la scena e la pubblicano. Il 2 ottobre la polizia assedia il politecnico, serra i cancelli con dentro gli studenti assieme ai loro professori, entra lanciando lacrimogeni e tutti cominciano a correre in tondo nei sotterranei dove c’è il parcheggio, gli inseguitori sparano in aria proiettili di gomma che colpiscono le pareti e rimbalzano sui corpi in movimento. In quei giorni in rete si diffonde una specie di gioco che è una caccia alle incoerenze, lo ha lanciato per primo un ex studente della Sharif: consiste nel cercare le foto di figlie di uomini delle istituzioni senza velo all’estero o alle feste private in Iran, con gonne corte o tacchi alti o scollature. Nei licei e alle medie, le ragazze dagli undici anni in su si tolgono il velo e aggrediscono gli insegnanti maschi che osano rimproverarle. In una scuola media tirano l’acqua e le bottiglie di plastica vuote a un uomo, lo costringono a indietreggiare e alla fine a scappare. I poliziotti si trovano a fronteggiare come nemiche le studentesse minorenni: alcuni agenti disertano la repressione. I manifestanti riescono a mettere in fuga gli uomini della sicurezza decine di volte. Altre volte, invece di scappare, i poliziotti si uniscono ai cortei. I pasdaran, che sono più di centomila e avrebbero la forza di annullare la protesta con la violenza in una manciata di ore, non escono neppure dalle caserme. Le proteste hanno un tipo di diffusione nuovo, insolito rispetto al passato, coinvolgono piccoli e grandi centri, i quartieri liberali e le città conservatrici, le province abitate dalle minoranze religiose ed etniche. Tutto avviene contemporaneamente: per questo Assim assapora la possibilità della rivoluzione. Assim ha pensato che fosse fatta quando gli operai metalmeccanici e quelli del settore petrolifero, quelli delle costruzioni e quelli che mantengono la rete elettrica hanno partecipato agli scioperi indetti dalla protesta. Anche nei bazar c’erano i banchi chiusi e a un certo punto i contadini hanno incrociato le braccia. Queste due categorie – insieme all’economia autogestita delle startup dei giovani – formano in buona sostanza l’intero del settore privato iraniano, considerando che le grandi società appartengono alle fondazioni controllate dal clero o dai Guardiani della rivoluzione. Ma è un’illusione ottica: gli operai hanno scioperato perché il governo non pagava gli stipendi da mesi, quando le buste paga sono tornate a fluire, hanno smesso. I bazaari hanno chiuso per paura che i loro negozi venissero danneggiati negli scontri più che per solidarietà con i manifestanti. Gli studenti hanno un obiettivo politico leggibile, ma nel suo insieme la protesta è caotica e scoordinata, non ha una testa. In un video girato a Karaj, trenta chilometri a nordest di Teheran, si inquadra un pick-up delle forze di sicurezza che è stato assalito pochi minuti prima, il vetro anteriore è frantumato e potrebbe implodere in ogni momento, l’auto bianca è imbrattata di sangue. La telecamera si muove: la portiera del sedile posteriore è aperta e dentro c’è un uomo accasciato, morto. Sulla destra un ragazzo con il volto coperto alza in aria un fucile. La scena è della manifestazione per ricordare Hadis Najafi, la tiktoker nata nel 2000 che, il 21 settembre 2022, gira un video selfie mentre cammina in strada per raggiungere un corteo e guardando in camera dice: “Non vedo l’ora di riguardare questo filmato tra qualche anno, quel giorno sarò felice di avere partecipato a queste proteste perché, a quel punto, in questo paese finalmente sarà cambiato tutto”. Hadis Najafi è morta in piazza qualche ora più tardi, quando la polizia ha sparato nella sua direzione sei volte con proiettili veri colpendola al torace, in faccia e al collo. I suoi compagni si sono trovati quaranta giorni dopo la sua morte, quando nella tradizione sciita finisce il periodo del lutto e si va a pregare sulla tomba del defunto. Ma i suoi amici erano lì per vendicarla e non per pregare: quel giorno hanno ucciso il bassiji di cui si vede il corpo nel video gridando il nome di Hadis. In quattro mesi, più di sessanta agenti sono stati ammazzati ed esponenti del clero sono stati aggrediti, uno è stato ferito a coltellate, un altro, in Baluchistan, è stato giustiziato a colpi di pistola. Nell’est violento del paese, i mullah hanno preso l’abitudine di togliersi il turbante quando vanno in giro o guidano per non diventare bersaglio degli arrabbiati. Dalla fine di settembre 2022 a Teheran, a Yazd, a Isfahan, a Mashhad, nella notte e all’improvviso cominciano cori contro la Guida suprema cantati dalle finestre dei palazzi, una voce dà inizio da dietro una tenda e a poco a poco le altre si uniscono. Nella strada, davanti ai portoni corrispondenti, ci sono i bassiji che marchiano gli edifici con una X nera, un segno di riconoscimento messo vicino ai citofoni per ricordarsi che in quei palazzi abitano dei dissidenti non ancora identificati con precisione. Forouzan non è mai stata arrestata. “Tu invece hai fatto una cosa stupida” dice ad Assim girandosi verso di lui e staccando per un attimo gli occhi dalla videocamera. Assim, durante un corteo, ha fatto l’errore di allontanarsi dalla massa degli altri manifestanti. Un bassiji adolescente con una maschera sulla faccia gli ha urlato contro. Lui ha iniziato a correre e quello ha sparato nella sua direzione. Quando si è fermato, l’inseguitore lo ha strattonato per il cappuccio della felpa, lui è caduto di spalle, sono arrivati altri due miliziani e lo hanno caricato di peso su un minivan blu scuro. “I bassiji-bambini indossano le maschere perché sì, noi abbiamo paura di loro, ma anche loro hanno paura di noi” dice Assim.

Il Foglio



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