Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 25/08/2023, a pag.30 con il titolo "Il mio Israele riscopre la vulnerabilità" l'analisi di David Grossman.
David Grossman
Benjamin Netanyahu
Una delle caratteristiche del popolo di Israele fin dai suoi inizi è stata la propensione allo slancio. Già il primo comando divino ad Abramo: «Vattene dal tuo paese» racchiude l’idea di rinnovamento, di pulsione, di imprenditorialità, di invenzione, di creatività. Lo Stato di Israele ha conosciuto periodi difficili e rischiosi per la sua sopravvivenza ma lo spirito che lo ha quasi sempre pervaso era quello di un paese dinamico, pieno di vita, che irradiava originalità. Un Paese imprevedibile che avrebbe potuto raggiungere nuovi traguardi in ogni campo. Poi è arrivato il tentativo di cambiamento di regime dell’attuale governo e Israele ha cominciato a perdere il movimento libero e armonioso tipico di un corpo sano. Ciò che era naturale, fluido e ovvio alla maggior parte dei suoi cittadini (l’identificazione con lo Stato e, pur fra costanti critiche, un senso di appartenenza quasi famigliare a esso) ora vacilla ed è avvolto da timori e incertezze. In verità questo processo di destabilizzazione è iniziato prima del colpo di mano dell’esecutivo di Netanyahu, ma è stato comunque proprio questo a farlo deflagrare con tanta virulenza e a cambiare completamente la realtà. In Israele è in atto un processo di sovvertimento, di sgretolamento del patto sociale e di indebolimento dell’esercito e dell’economia. E non solo il suo slancio si è fermato, ma si assiste a un arretramento verso principi reazionari di discriminazione e di razzismo, verso l’esclusione delle donne, della comunità LGBT e degli arabi. Verso l’ignoranza e la rozzezza, che assurgono al rango di valori. E come spesso accade a un corpo malato, disturbi nascosti cominciano a rivelarsi.
Nella coscienza israeliana affiorano il significato e le conseguenze reali – e anche il costo reale – della malattia cronica dell’occupazione, dei rapporti distorti tra la maggioranza laica e la minoranza ultraortodossa e quella nazionalista e religiosa di destra (la cui forza e influenza sono ancora più pericolose di quelle degli ultraortodossi), dei rapporti esplosivi fra lo stato e la sua grande minoranza araba, e altro ancora. Ognuno di questi disturbi basterebbe a sconvolgere, o addirittura a paralizzare, l’esistenza naturale e sana del corpo in cui si annidano: lo Stato di Israele. I 64 membri della maggioranza alla Knesset, e la maggior parte dei loro elettori, probabilmente non concorderebbero con me, ma se la loro coscienza non è ermeticamente sigillata, faticherebbero a negare che qualcosa sta minando e contrastando lo slancio israeliano; che la sensazione di solidità e di forza militare quasi illimitata non è più immune da dubbi, incertezze e timori. Per la prima volta, dopo anni,sembra che gli israeliani abbiano cominciato a capire il significato del termine “debolezza”. Per la prima volta – forse dai tempi della guerra dello Yom Kippur – riconosciamo il sottile gocciolio della paura esistenziale che attanaglia chi non ha il completocontrollo del proprio destino e le cui decisioni non sono solo frutto dei propri interessi. La paura dei deboli. E anche se «il popolo eterno non ha timore», spaventa comunque ammettere che la paura, oggi, non è solo una reazione naturale a una minaccia esterna ma che chi ci annienta e distrugge proviene dalle nostre file. È interessante che proprio coloro che rappresentano (dal loro punto di vista) l’israelianità forte, sicura e aggressiva, evocano nei loro concittadini sentimenti di paura, di debolezza e di minaccia tipiche della diaspora. Come un funambolo che all’improvviso inizia a guardare le proprie scarpe, e poi l’abisso, siamo molto più consapevoli della fragilità della nostra esistenza. Della nostra instabilità. Della sensazione che la terra ci stia cedendo sotto i piedi. All’improvviso nulla è più scontato. Né la coesione, né l’unità, né la fratellanza, né l’amicizia, né lo spirito di volontariato e di sacrificio, né l’esercito “del popolo”, né il “seguitemi”, né l’impegno reciproco. No no no. La qualità israeliana vigorosa, energica e positiva si è trasformata nel proprio contrario.
Nel negativo della realtà che intendeva creare. Questo Paese unico nel suo genere, nato quasi dal nulla, una sorta di miracolo, si sta svuotando davanti ai nostri occhi stupiti e sgomenti degli elementi fondamentali del proprio carattere, della propria peculiarità, della propria unicità. C’è un modo per tornare da dove siamo venuti? A chi si mostra disperato davanti all’aggressività, alla prepotenza e all’arroganza della destra occorre ricordare che il movimento di protesta è speranza. È libero movimento in una situazione congelata. È un atto creativo, è impegno reciproco e volontariato, è coraggio ideologico, è lo spirito e l’anima della democrazia. È la possibilità che noi e i nostri figli avremo una vita libera. Occorre mantenere questo movimento, alimentarlo e rispettarlo e assumerci l’impegno a lungo termine di restaurare Israele, di risollevarlo dalle macerie e dal suo cuore spezzato, di ricostruirlo. Dovremo impegnarci a risollevarlo e riedificarlo finché non saremo consapevoli che il nostro paese si è salvato, oppure che la sua malattia si è trasformata in un tumore maligno.
Traduzione di Alessandra Shomroni
Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante