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La Stampa Rassegna Stampa
25.05.2003 Per capire quel che succede ad Arafat
Niente di meglio dell'analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 25 maggio 2003
Pagina: 6
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Arafat,simbolo di una causa divenuto paria»
GERUSALEMME YASSER Arafat, dicono i suoi, passa molto tempo al telefono nelle lunghe ore alla Muqata semidistrutta dai colpi di cannone. La gran fila di Mercedes scassate giace ancora sotto la tettoia di lamiere e cemento, anch’essa slabbrata dai colpi. «Abu Ammar» parla con tutto il mondo, a tutti gli amici che ha accumulato nel corso della sua carriera di Mister Palestina, misterioso leader dalle sette vite, sconfitto e risorto mille volte, seduto a tavoli di trattative e impegnato in strategie di guerriglia e di feroce terrorismo, anzi inventore di una tattica per cui il terrore e il ramoscello d’ulivo possono comparire insieme. Qualche giorno fa in un’intervista a Fox News ha dichiarato di essere personalmente impegnato nel nuovo processo di pace, e ha fatto di tutto per dare al pubblico l’idea di un immarcescibile potere. Ma intanto il premier Abu Mazen incontrava Colin Powell, e lui no. Il primo ministro giapponese è andato a trovarlo a Ramallah, e così ha dovuto rinunciare all’incontro con Sharon accontentandosi del ministro degli Esteri Silvan Shalom: il premier israeliano ha dichiarato ufficialmente che non incontrerà nessuno che veda anche il Raíss, e Bush ha ripetuto che vuole in fretta un vertice con Sharon e Abu Mazen, ma di Arafat non se ne parla nemmeno. Adesso le forche caudine sono per Dominique de Villepin, che di nuovo ha ricevuto a sua volta il fatidico messaggio: o lui o me, gli ha detto «Arik». Perché? La parola chiave di risposta è quella che Sharon esternò con toni definitivi ai tempi dell’operazione «Muro di Difesa»: «Irrilevante». Dopo i 29 morti della strage di Natanya, la notte della cena rituale di Pasqua, a opera di un terrorista suicida, gli israeliani ripeterono quello che andavano elaborando da tempo, stavolta in modo definitivo: Arafat non è persona con cui si possa parlare, è irrilevante ai fini della pace per un semplice motivo; è lui a dare la luce verde a buona parte degli attacchi suicidi. Durante l’operazione «Muro di Difesa» gli israeliani trovarono una quantità di lettere e di mandati di pagamento che dimostravano legami tra le cinture al tritolo, i loro portatori, i loro aiutanti e la piramide dell’Autonomia palestinese. Quando l’amministrazione americana venne a conoscenza del fatto che anche il viaggio della nave «Karin A», piena di armi iraniane dirette alle casematte palestinesi, era di fatto stato organizzato dai militari dell’Autonomia, decise di togliere a sua volta il saluto al Raíss. Bush annunciò allora al mondo: «Ha mentito, è "irrilevante", non ci parleremo più». Dunque, Arafat, simbolo vivente della causa palestinese, anzi colui che l’ha elevata, come tutti gli riconoscono, a cuore stesso della causa araba in generale, ha perduto il suo valore universale. Il volto di Abu Mazen è diventato molto più foriero di possibilità di reciproca comprensione tra i due contendenti, e anche se ancora in modo molto fragile, la faccia moderna della causa palestinese che può sposarsi con un nuovo Medio Oriente più democratico e contrario al terrore. Post-Iraq, insomma. Tuttavia ci sono alcune cose che vanno ricordate: la prima è che Arafat ha dimostrato sempre, nel corso di una tormentatissima storia, la capacità di rovesciare le sue disgrazie e i suoi errori in altrettanti vantaggi; la seconda, e lo ripetono gli israeliani, è che il Raíss ha ancora sottomano parecchi pulsanti di controllo, dal governo al terrorismo, e che intende usarli per proteggere il suo potere che svanisce e anche la sua linea che alla fine non prevede compromessi con Israele. Di uomini suoi ne ha nel governo, ne ha dentro Al Fatah, che è la sua invenzione primogenita; ne ha tra i Tanzim e nelle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, e attualmente gode anche di simpatie nelle fazioni estremiste come Hamas e la Jihad, che in passato lo hanno odiato. Abu Mazen, sin dal giorno della sua investitura, anche se ha sempre resistito con coraggio alle pressioni del Raíss, ha insistito per portare Mahmud Dahlan con sé, e sta ripristinando il ruolo di Jibril Rajub, ha sempre fatto mostra, con baci e abbracci ma soprattutto con dichiarazioni politiche come quella sul diritto al ritorno dei profughi, di devozione filiale verso Mister Palestina. Negli Anni ‘70 (Arafat era ancora giovane e non solo al comando) la speranza di impossessarsi di fatto della Giordania, cosa che portò re Hussein a fare letteralmente a pezzi le organizzazioni palestinesi uccidendo tra i 6 e i 10 mila militanti durante il famigerato Settembre Nero, si concluse per il Raíss con una fuga. Ma essa fu il preludio di un’impensabile riorganizzazione che si concretizzò con una forte strategia di attacco di cui fanno parte tutti i più grandi attentati terroristici del tempo, da Monaco a Entebbe a mille altri, che non crearono disdoro alla causa palestinese, ma anzi la portarono alla ribalta dell’Onu, dei media internazionali e di tanti Parlamenti democratici, fra cui quello italiano, che Arafat, in un turbinio di viaggi di amicizia, visitò. La causa di un forte movimento nazionale privo di territorio in mezzo a un mondo arabo privo di unità rese la causa di Arafat centro dell’attenzione. Quel minuscolo pezzo di terra Palestina-Israele-Terrasanta era importante per musulmani, cristiani ed ebrei: tutto il mondo guardava in quella direzione. Il fatto poi che il Medio Oriente fosse crocevia strategico e regione di enormi giacimenti petroliferi, e il fatto stesso che i nemici di Arafat fossero gli ebrei, scandalo del mondo, vittime degli orrori della Seconda guerra mondiale, rese Arafat una potenza invulnerabile. Cosicché anche la grandiosità degli attentati è andata in sott’ordine, e Arafat ha potuto risorgere di nuovo nell’82 dalle ceneri della guerra del Libano, in cui le notevoli riserve umane e logistiche (ricchissime riserve di armi) della guerriglia palestinese furono scompaginate, e i palestinesi messi in fuga verso Tunisi. Ma laggiù Arafat ricostruì una politica che attraverso vari passaggi è arrivata al ritorno nei Territori, grazie in gran parte alla prima Intifada e al processo di pace. Tutto questo nonostante un altro errore della leadership palestinese: la simpatia per Saddam Hussein nel 1991. Ma il fallimento del processo di pace per Arafat non è stato solo uno dei tanti scogli nella sua perigliosa navigazione: egli infatti, quando a Camp David rifiutò le proposte di Barak, non immaginava mai che il rilancio della sua battaglia si sarebbe impigliato nella lotta al terrorismo sul terreno mondiale. E’ qui, prima sull’11 Settembre e più tardi sulla guerra americana all’Iraq, che il leader palestinese ha incontrato difficoltà insormontabili. Arafat è stato dichiarato «irrilevante» non soltanto nell’ambito del conflitto israelo-palestinese: è il gioco mondiale che è cambiato, o almeno che sta cambiando. Il terrorismo non ha più molte possibilità di essere inteso come una guerra di «combattenti per la libertà», e quindi questa ultima Intifada di fatto non ha rappresentato solo una tragedia per gli israeliani e per i palestinesi, ma anche un intoppo strategico di carattere mondiale. E’ per questo che esce Arafat ed entra Abu Mazen.





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