Navalny svela una scomoda verità Commento di Anna Zafesova
Testata: La Stampa Data: 12 agosto 2023 Pagina: 15 Autore: Anna Zafesova Titolo: «"Non solo Putin, Eltsin ci ha rovinati". Così Navalny svela una scomoda verità»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 12/08/2023, a pag.15 con il titolo " "Non solo Putin, Eltsin ci ha rovinati". Così Navalny svela una scomoda verità" il commento di Anna Zafesova.
Anna Zafesova
Vladimir Putin
Esiste un tabù che non viene quasi mai menzionato, negli interminabili dibattiti su cosa in Russia sia andato storto, e quando il Cremlino abbia voltato le spalle alla visione occidentale della democrazia. Il momento in cui è accaduto – o almeno in cui è diventato chiaro – non è un segreto, anzi, è avvenuto sotto gli occhi di tutto il mondo, trasmesso in diretta dalla Cnn. Era il 4 ottobre 1993, il giorno in cui Boris Eltsin ordinò di prendere a cannonate il Parlamento che aveva sciolto nonostante la legge non glielo permettesse, per poi rifondare la Russia postsovietica con una Costituzione che gli conferiva poteri da monarca. Tutto il resto - dal 9 agosto 1999, quando Eltsin presentò Vladimir Putin come nuovo premier e suo "delfino" prescelto, al 24 febbraio 2022 in cui il presidente russo lanciò bombe sulle città ucraine – è stato la conseguenza di quel giorno, in cui il Cremlino decise che il potere in Russia non avrebbe mai potuto venire trasferito per mezzo delle elezioni, meno che mai nelle mani di una opposizione. È singolare che a ricordarlo ai russi sia un uomo rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, Alexey Navalny, che ha pubblicato quella che ha definito una «confessione di paura e odio» verso coloro che hanno «venduto, bevuto, dilapidato l'opportunità storica che il nostro Paese aveva negli Anni 90». Sono i «maledetti Anni 90» con i quali Putin ha terrorizzato per vent'anni i russi come epoca di miseria e umiliazione, che Navalny racconta invece come l'alba di una democrazia mai arrivata. Nella narrazione comunemente accettata sia dei liberali russi, sia dall'Occidente, fino all'arrivo di Putin, la Russia era sul cammino – per quanto complicato dal disastro economico e dalla nostalgia sovietica – verso l'Europa, e negli ultimi 18 mesi quasi tutti, da Bill Clinton ad Angela Merkel, si sono concentrati sui «mea culpa» di non aver compreso a fondo che Putin era il cattivo principale e non solo un autocrate «moderato». Ma il prigioniero politico che il presidente russo odia al punto da non chiamarlo mai per nome arriva quasi a scagionarlo: «Non è con Putin, è stato con Eltsin, con Tania e Valia (la figlia del primo presidente Tatiana con il marito e capo dello staff del Cremlino Valentin Yumashev, ndr), Chubais, gli oligarchi e tutta la banda del partito e del komsomol che si erano ribattezzati democratici, che nel 1994 invece che andare verso l'Europa siamo andati in Asia Centrale». Non è stato Putin, messo al Cremlino dalla «famiglia» eltsiniana. Le sue svolte – i bombardamenti della Cecenia nel 2000, il blitz contro le tv private nel 2001, la strage della Dubrovka nel 2002, l'arresto di Mikhail Khodorkovsky nel 2003, l'abolizione delle elezioni locali dopo la tragedia di Beslan nel 2004, i primi omicidi degli oppositori nel 2006, il discorso di Monaco nel 2007, l'attacco alla Georgia nel 2008 – sono state cruciali nell'involuzione del dittatore, e del suo popolo, che si sono alimentati a vicenda di rancori e risentimenti imperiali. Ma «non c'è stato un golpe, palese o strisciante, degli uomini del Kgb, sono stati i cosiddetti riformatori democratici a chiamarli», ricorda Navalny. Nelle elezioni del 1996 Eltsin aveva vinto grazie ai brogli, ai soldi degli oligarchi, alla censura nei media sul suo stato fisico e mentale. Il fatto che dall'altra parte ci fosse un comunista stalinista come Gennady Ziuganov (tuttora un pilastro del putinismo) non giustifica il peccato originale. Il brevetto della cleptocrazia inamovibile spartita tra oligarchi e baroni regionali, delle elezioni dall'esito scontato e perfino delle guerre alle ex colonie venne depositato allora. Se esiste davvero una responsabilità dell'Occidente, consiste non nell'aver «ferito l'orgoglio» nazionalista russo, ma nell'aver chiuso gli occhi su una Russia sempre più corrotta e autoritaria, mentre faceva pressioni sull'Ucraina (forse perché non temeva di «umiliarla») per una maggiore democrazia e trasparenza. Lo scritto di Navalny sicuramente genererà un vespaio. Ma più che un avvelenato dibattito su chi, dove, quando e come aveva sbagliato, deve servire da monito. La brutalità dell'invasione dell'Ucraina ha abbassato molto l'asticella del tollerabile: probabilmente, oggi sia l'Occidente che la maggioranza dei russi firmerebbero subito per tornare agli anni del primo (e anche del secondo) putinismo, ma senza la guerra. In fondo, mezzo mondo vive in autoritarismi o democrazie «incomplete», perché chiedere di più a una Russia che la libertà non l'ha mai conosciuta? L'appello di Navalny alla purezza degli ideali confligge con la realpolitik che esige «compromessi necessari con persone spiacevoli», e lui stesso lo riconosce. Ma siccome è quasi certo che la fine della guerra coinciderà con un regime change al Cremlino, il «sogno di un dittatore buono» potrebbe ripresentarsi come pericolosa tentazione.
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