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La Repubblica Rassegna Stampa
02.08.2023 Così la rivolta di Treblinka riscrisse la storia
Analisi di Marcello Pezzetti

Testata: La Repubblica
Data: 02 agosto 2023
Pagina: 30
Autore: Marcello Pezzetti
Titolo: «Così la rivolta di Treblinka riscrisse la storia»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 02/08/2023, a pag.30, con il titolo "Così la rivolta di Treblinka riscrisse la storia" l'analisi di Marcello Pezzetti.

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Marcello Pezzetti

Giovinazzo:

La Germania nazista pensava che gli ebrei, per la sola ragione di essere nati tali, avrebbero dovuto “sparire” dall’Europa, fino al 1941 attraverso le espulsioni all’Est, poi con l’annientamento fisico. Ora, come reagirono gli ebrei a questo tentativo di sterminio, definito “Soluzione finale del problema ebraico”? Ci fu una concreta “resistenza” alla politica omicida del Reich? La tesi più diffusa rimane quella della “passività ebraica”, sostenuta da personalità tra le più rilevanti – anche da parte ebraica – della cultura e della storiografia del dopoguerra. Hannah Arendt definì la resistenza ebraica come «pietosamente limitata, incredibilmente debole e del tutto innocua» e Raul Hilberg scrisse che gli ebrei avrebbero opposto «parole ai fucili, dialettica alla forza». Questo atteggiamento, secondo il grande storico, si sarebbe basato sull’esperienza di duemila anni, consistente nel tentativo di evitare la distruzione venendo a patti col nemico, strategia che aveva funzionato per secoli. Ciò, però, avrebbe reso gli ebrei «incapaci di operare un mutamento». Ora, non c’è dubbio che la reazione ebraica alla politica nazista si caratterizzò per un’iniziale incomprensione della seconda fase di questa politica, quella dell’annientamento fisico. Si ritenne fosse sufficiente utilizzare i meccanismi usati da secoli come degli “anticorpi” di fronte all’attacco di una normale malattia, senza rendersi conto che quella malattia era strutturalmente diversa da tutte le altre, perché non attaccava solamente una parte dell’organismo, bensì le sue difese immunitarie. Fino alla metà del 1942 gli ebrei misero dunque in atto un tipo particolare di resistenza: quella “civile”, che alcuni hanno definito “spirituale”, ma che per troppi anni è stata purtroppo chiamata “passiva”. Soprattutto nell’Europa orientale i responsabili delle istituzioni ebraiche considerarono “armi di sopravvivenza” la creazione di istituzioni di soccorso sociale, in particolare per l’infanzia; il tentativo di mantenere in vita istituzioni culturali rigorosamente proibite; l’educazione dei giovani, anche religiosa, e la preparazione di un’improbabile emigrazione dei bambini in Palestina. A volte si fece ricorso al contrabbando per nutrire gli elementi più deboli, in alcuni casi all’organizzazione di fughe. Le cose cambiarono radicalmente dopo alcuni mesi, quando fu chiaro che l’obiettivo del regime nazista fosse lo sterminio di massa del popolo ebraico. Soprattutto i giovani ebrei dell’Europa orientale passarono direttamente dall’oppressione alla rivolta, alla resistenza armata, e furono i primi in Europa a metterla in atto: nell’aprile del 1942 si assistette all’insurrezione di un intero ghetto, quello di Lachwa, in Bielorussia. La rivolta più conosciuta avvenne nel ghetto di Varsavia, che provocò l’uccisione di almeno 300 militi tedeschi, ma ve ne furono altre, almeno quattordici, tutte avvenute in poco più di un anno e terminate con la morte eroica della maggior parte dei rivoltosi. Ma cosa si poteva pretendere dalla “resistenza ebraica”, composta prevalentemente da giovani disperati che, senza alcuna preparazione militare, si stavano opponendo all’esercito più potente del mondo con armi totalmente inadeguate, privi di un ruolo nell’ambito della resistenza “classica”, abbandonati dal cosiddetto mondo civile, indifferente, quando non ostile? Ebbene, queste persone destinate a sparire riuscirono, nel 1943, a compiere un’impresa ritenuta impossibile: scatenare una rivolta nei due campi di sterminio nazisti più micidiali: Treblinka e Sobibor. Questi luoghi facevano parte, con un terzo, Belzec, di uno spaventoso progetto denominato “Aktion Reinhardt”, attivato nel territorio della Polonia occupata per eliminare tutta la popolazione ebraica lasciando momentaneamente in vita solo pochissimi lavoratori indispensabili. I persecutori, tedeschi appartenenti agli strati sociali più bassi, ma esperti nello sterminio col gas, perché provenienti dalla “Aktion T4”, ovvero l’uccisione dei cosiddetti “disabili”, erano coadiuvati da centinaia di guardie (ex prigionieri di guerra sovietici, circa 100-120 per campo), appositamente addestrati, chiamati “Trawniki-Männer”. La struttura di questi campi era simile: erano dotati di una cosiddetta Rampa per lo “scarico” delle vittime (i binari entravano all’interno del campo); di uno spazio per la raccolta degli oggetti e per gli spogliatoi; di una zona in cui si trovavano le camere a gas, collegate a una sala dotata di un motore di camion o carro armato, e di un ampio spazio in cui via via venivano scavate le fosse di seppellimento, utilizzate in un periodo successivo per la cremazione dei corpi a cielo aperto. A questa zona si accedeva attraverso un percorso obbligato verso la morte, chiamato Schlauch, “tubo”, attorniato da filo spinato camuffato con della vegetazione. I cadaveri inizialmente erano stati sepolti, ma nel 1943 vennero disseppelliti e bruciati. Anche se questi campi erano luoghi in cui avveniva esclusivamente l’eliminazione di chi vi era deportato, gruppi di vittime venivano tenuti momentaneamente in vita per espletare il lavoro più “sporco” della macchina di sterminio: raccogliere e sistemare le valigie e gli oggetti che arrivavano con ogni trasporto, aiutare la gente a svestirsi, tagliare i capelli alle donne, estrarre i cadaveri dalle camere a gas, pulire questi locali in cui si dava la morte, estrarre i denti d’oro dai cadaveri, portarei corpi verso le fosse con delle barelle, stratificare i cadaveri sul fondo delle stesse fosse e coprirli con un po’ di sabbia e calce di cloro per disinfettarli; procedere, nel 1943, alla cremazione a cielo aperto di quei cadaveri, setacciare il tutto e triturare a cenere le piccole ossa rimaste. Inizialmente gli ebrei, per evitare rappresaglie, pensarono di reagire solo con azioni individuali quali le fughe; poi, nel 1943, grazie alle notizie sulle rivolte in corso che giungevano dai ghetti, questi “lavoratori temporanei” si organizzarono e in primavera iniziarono a progettare insurrezioni. All’interno dei campi della morte, però, i prigionieri delle zone in cui si trovavano le installazioni di sterminio erano ben isolati rispetto agli altri; a Treblinka una sola persona era in grado di tenere i contatti con le due parti del lager: era Jankiel Wiernik, un carpentiere. La rivolta avrebbe dovuto essere messa in atto subito in primavera, tuttavia fu posticipata a causa dello scatenarsi di un’epidemia di tifo. Si formarono piccoli comitati per paura di traditori, ma la maggior parte dei prigionieri non sapeva quello che stava succedendo. Alcuni avevano accesso a strumenti che intendevano utilizzare, come coltelli o machete, e un fabbro duplicò la chiave del magazzino delle armi. I giovani che si occupavano delle pulizie nelle aree delle guardie riuscirono a rubare altri piccoli attrezzi, come anche qualche bomba a mano e un prigioniero mise su tutti i tetti una sostanza infiammabile. Fu fissata la data, il 2 agosto, e si decise il piano: la fuga di massa durante l’appello generale e, contemporaneamente, l’incursione negli ufficiamministrativi e nelle baracche dei collaborazionisti per uccidere le guardie. La rivolta, tuttavia, iniziò prima del previsto, perché un tedesco (Küttner) sorprese un prigioniero con dei preziosi e decise di fucilarlo. Questo fatto generò grande confusione, quindi si decise di dare immediatamente inizio alla rivolta con un colpo di pistola come segnale. Circa 100 prigionieri, per debolezza, per terrore, o perché non informati, rimasero nel campo, mentre gli altri cercarono di fuggire. Molti, però, vennero colpiti con fucili dalle torrette di guardia. Solo circa 100 di essi, tra uomini e donne, riuscirono a superare il raggio di azione dei fucili. Contrariamente a ciò che avevano progettato, non riuscirono ad uccidere nemmeno una guardia tedesca, ma solo due “Trawniki” e alcuni prigionieri ritenuti delatori. Misero a fuoco, invece, molti edifici di legno (officine, stazione di benzina), ma rimasero intatte le camere a gas, costruite in muratura. È per questa ragione che poco dopo sarebbe arrivato ancor qualche altro trasporto, da Bia?ystok. Dopo l’estate del 1943 anche a Sobibor i prigionieri si organizzano in un Comitato di resistenza. Qui, differentemente che a Treblinka, erano però impossibili i contatti con il settore dotato di installazioni di messa a morte. Un evento imprevisto cambiò in modo determinante la situazione: i nazisti commisero l’errore di inserire nel campo un gruppo di prigionieri di guerra ebrei da un trasporto da Minsk. Tra questi si trovava Aleksander Pecherski, un ufficiale dell’Armata Rossa, dotato della necessaria esperienzamilitare che si univa alla conoscenza delle strutture locali da parte degli altri prigionieri che erano nel campo da molti mesi. In poche settimane venne elaborato un piano concreto – studiato alla perfezione, diversamente da Treblinka – che prevedeva l’uccisione di un alto numero di sorveglianti tedeschi e guardie “Trawniki” e la fuga del maggior numero possibile di prigionieri. La rivolta ebbe inizio il 14 ottobre 1943, quando alcune autorità naziste erano in vacanza. I combattenti ebrei chiamarono i sorveglianti nazisti, notoriamente avidi e puntuali, uno dopo l’altro, con pretesti vari (provare nuove scarpe, nuovi cappotti, controllare i mobili, etc.) e, senza farsi accorgere, riuscirono a ucciderne almeno nove, fra cui il vice- comandante Niemann, oltre ad alcune guardie sovietiche. Poi un nazista, Bauer, trovò uno dei cadaveri e lanciò l’allarme. Così la rivolta, anche qui, scoppiò in anticipo. Gran parte dei 550 ebrei che, secondo il sopravvissuto Thomas Blatt, erano presenti a Sobibor cercò la via di fuga, ma 150 rimasero in campo, sotto tiro come a Treblinka; 80 furono uccisi durante la rivolta, colpiti da fucilate o per lo scoppio delle mine; moltissimi eliminati nel corso di successive perquisizioni. Per quelli che riuscirono a uscire dai due campi, il seguito della fuga fu altrettanto tragico: ovunque vennero affissi manifesti che informavano la popolazione della fuga dei “banditi” ebrei, e da subito iniziò la perquisizione dell’area alla caccia di questi poveretti. Il personale del campo ricevette rinforzi da altre unità per la ricerca: la Polizia di sicurezza (Sipo), la Gendarmeria, la Polizia doganale, la Polizia polacca, addirittura i ferrovieri. I prigionieri rimasti in campo, così come quelli via via riportati, furono nella quasi totalità uccisi, ma molti altri – almeno 100 solo quelli di Sobibor – vennero eliminati barbaramente, da tedeschi, ma anche da polacchi, durante il periodo in cui si nascosero nei boschi o nei centri abitati. Solo circa 50 resistenti di Treblinka e 50 di Sobibor sopravvissero alla guerra. Tra loro, alcune donne e anche i due responsabili della rivolta di Sobibor, Pechersky e Feldhändler. Il secondo, purtroppo, venne ucciso il 2 aprile 1945 a Lublino da antisemiti polacchi dell’Armia Krajowa (Esercito Nazionale Polacco). La resistenza ebraica al nazismo, e in particolare le eroiche rivolte dei campi della morte di Treblinka e Sobibor, così come quella del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, non modificarono l’atteggiamento delle autorità naziste verso gli ebrei, non provocarono un arresto della loro politica genocida, né un suo ridimensionamento, tuttavia ebbe un impatto considerevole: provocò, infatti, un cambiamento epocale – anche se fu tardivo – della percezione che la società europea aveva degli ebrei e, insieme, che gli stessi ebrei avevano di se stessi. Senza queste disperate rivolte, senza testimoni, anche se pochissimi, non avrebbero potuto aver luogo i processi e, conseguentemente, oggi noi non avremmo la conoscenza che possediamo, fin nei particolari, di quella che è stata la più grande tragedia del ’900. Dovrebbe essere chiaro, infine, che, come scrisse lo storico Israel Gutman, resistente nel ghetto di Varsavia, ad alimentare la “Endlösung” furono l’ideologia ed i piani estremisti dei nazisti, non la passività degli ebrei.

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