Netanyahu, Biden e quel treno per Riad
Analisi di Tovah Lazaroff, da Israele.net
Tovah Lazaroff
Joe Biden con Benjamin Netanyahu
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sventolato un visionario ramoscello d’ulivo, con il suo discorso di domenica scorsa circa una ferrovia in Medio Oriente da Gerusalemme a Riyadh. Lo ha fatto in una regione che ribolle, infiammata da ostilità etniche e religiose. E l’ha offerta a un paese sconvolto da lacerazioni esistenziali. E’ una visione che funziona come un toccasana per tutti, compresi i politici del governo che devono fare i conti con il crollo dei consensi. Da più di 30 settimane centinaia di migliaia di israeliani scendono in piazza per protestare contro il piano di riforma istituzionale-giudiziaria di Netanyahu, che a suo dire rafforzerà la democrazia israeliana mentre i suoi oppositori paventano che trasformi Israele in una dittatura. L’estrema spaccatura ha persino portato a ipotizzare che la nazione si trovi sull’orlo di una guerra civile. Dopodiché, in un momento in cui la nazione sembrava più divisa che mai dopo l’approvazione da parte della Knesset del primo disegno di legge della riforma, Netanyahu con la ministra dei trasporti del Likud Miri Regev e il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, leader del partito Sionista Religioso, ha aperto la settimana parlando di unire la nazione mediante una nuova linea ferroviaria rivoluzionaria, convenientemente denominata “Un solo Israele”. Se il governo non riesce a unificare il cuore della nazione, può almeno avvicinare fra loro i suoi abitanti lanciando un progetto per “connettere Israele” al “futuro di tutti”, un futuro in cui un treno ad alta velocità potrà trasportare gli israeliani da Kiryat Shmona (estremo nord) a Eilat (estremo sud) in appena due ore. Per dare un’idea, a causa dei frequenti ingorghi attualmente possono essere necessarie più di due ore per andare in auto solo da Tel Aviv a Gerusalemme. Il progetto, che comporta vantaggi sia ambientali che economici, non soltanto ha offerto a Netanyahu un’occasione per discorrere di unità nazionale. Gli ha anche fornito una pedana da cui respingere le critiche di chi lo accusa di distruggere il paese perseguendo il suo personale tornaconto politico. In prospettiva, solo un governo pienamente funzionante e con a cuore il miglior interesse pubblico potrebbe intraprendere un progetto così ambizioso. Nel rivelare il piano, Netanyahu ha parlato della sua natura rivoluzionaria, definendolo un punto di svolta nella storia dei trasporti israeliani paragonabile alle trasformazioni da lui già promosse con lo sviluppo del gas naturale e l’introduzione nel paese di un’efficiente economia di mercato. Poi ha aggiunto un ulteriore livello, presentando il progetto non solo come un piano per il riscatto interno del paese, ma anche come una potenziale opportunità di trasformare l’intera regione. Lo ha infatti collegato alle voci sempre più diffuse fra diplomatici e giornalisti circa un potenziale accordo israelo-saudita, affermando che la nuova linea attraverso Israele potrebbe anche essere la prima tranche di una linea ferroviaria regionale: vagoni e container potrebbero partire dal porto di Haifa sul Mediterraneo e attraversare la Giordania, per arrivare fino in Arabia Saudita sul Mar Rosso. Di un piano di questo genere, presentato per la prima volta dall’allora ministro dei trasporti Israel Katz, oggi ministro dell’energia, si parla da anni. Si baserebbe sulla prospettiva di utilizzare le ferrovie per contribuire a trasformare la regione in una potenza economica, contando sull’appeal della prosperità per spazzare via odi di antica data e depotenziare l’influenza del conflitto israelo-palestinese. Certamente un biglietto Gerusalemme-Riad e di là da venire, anche nelle circostanze più favorevoli. Ma è tornato utile a Netanyahu menzionarlo adesso, perché ha dato l’impressione che una normalizzazione israelo-saudita stia progredendo anche in un momento in cui un tale accordo sembra ancora molto improbabile. Affinché un accordo di normalizzazione dei rapporti fra Israele e Arabia Saudita si avveri, o gli Stati Uniti dovranno pagare un prezzo oneroso oppure Israele dovrà fare importanti concessioni ai palestinesi. Meno Israele può cedere ai palestinesi, più il peso dell’accordo ricadrà sugli Stati Uniti. A tale riguardo, il New York Times ha scritto che i sauditi chiederebbero un patto di difesa con gli Stati Uniti sul tipo della NATO (obbligo di intervento a difesa dell’alleato in caso subisca un’aggressione ndr), nonché il sostegno di Washington a un programma nucleare civile saudita e la cessione di sofisticati sistemi di difesa anti-missile. Tale prezzo appare così alto che, nonostante il sostegno teoricamente bi-partisan a un accordo, non è affatto certo che riuscirebbe a passare al Congresso. Biden dovrebbe insistere perché in cambio l’Arabia Saudita normalizzi pienamente i rapporti con Israele. Così facendo, come ha sottolineato l’editorialista del New York Times Thomas Friedman, il presidente americano farebbe inevitabilmente un grosso favore a Netanyahu, un leader israeliano da cui Biden ha preso le distanze per via della sua netta opposizione al piano di revisione giudiziaria promosso senza ampio consenso nel paese. Ma Biden ha poche possibilità di scelta, se vuole ottenere successi in Medio Oriente. L’ex presidente Donald Trump pubblicizzò molto il suo “accordo del secolo” come strumento per arrivare a un trattato di pace tra Israele e palestinesi, cosa che non è avvenuta. L’amministrazione Biden ha per lo più accantonato quella mappa della pace, la comunità internazionale non l’ha mai adottata e i palestinesi non l’hanno mai nemmeno presa in considerazione. Col tempo, tuttavia, si è vista la forza dell’impronta lasciata da Trump nel processo di pace attraverso la realizzazione degli Accordi di Abramo, da lui mediati. L’assenso di quattro paesi arabi a normalizzare i rapporti con Israele nonostante l’assenza di una pace israelo-palestinese ha avvalorato l’antica convinzione di Netanyahu che Israele debba stringere relazioni con gli stati arabi prima di definire un accordo finale con i palestinesi. Oggi questa è l’unica partita aperta. Se Biden vuole un successo in Medio Oriente prima delle elezioni del 2024, deve acquistare un biglietto del treno per Riad, ammesso che abbia il sostegno del Congresso. La prospettiva di un successo a questo livello, in particolare mentre Iran e Cina cercano di rafforzare i loro legami con l’Arabia Saudita, supera di gran lunga qualsiasi preoccupazione per le condizioni della democrazia israeliana, tanto più che su questo punto l’Arabia Saudita è indietro anni luce rispetto allo stato ebraico. Un accordo darebbe anche una spinta alla campagna per la rielezione di Biden, sebbene la sua permanenza alla Casa Bianca non dipenda necessariamente da questo. Netanyahu, d’altra parte, non può permettersi di lasciar cadere un possibile accordo con l’Arabia Saudita, che per lui costituirebbe uno dei suoi massimi successi, a lungo perseguito. Tuttavia, a seconda delle condizioni di un tale accordo, potrebbe anche non essere in condizioni di realizzarlo. Il che è particolarmente vero se a Netanyahu verrà chiesto di soddisfare alcune delle concessioni verso i palestinesi elencate nell’articolo di Friedman, a cominciare dalla promessa di non applicare mai la sovranità israeliana agli insediamenti [dell’Area C] in Cisgiordania. Potrebbe forse acconsentire a un ulteriore rinvio (come fece per aprire la strada agli Accordi Abramo ndr), ma perderebbe istantaneamente il sostegno della sua coalizione se si impegnasse a non farlo mai in assoluto. Il trucco qui starebbe nel trovare un gesto per i palestinesi che Netanyahu possa soddisfare pur mantenendo integra la sua coalizione, sapendo che molti suoi membri respingono l’idea stessa di uno stato palestinese e puntano ad annettere tutta l’Area C della Cisgiordania. Pertanto la possibilità concreta di un accordo appare così scarsa che domenica sera la tv Canale 11 ha ventilato l’idea di un processo israelo-saudita in più fasi, in cui i due paesi avvierebbero relazioni diplomatiche di basso profilo senza una vera e propria normalizzazione. Oppure Netanyahu potrebbe cambiare marcia. Specie ora che ha ottenuto l’approvazione di un primo disegno di legge che, eliminando la clausola della ragionevolezza, restringe la facoltà della Corte Suprema di contrastare scelte di governo eticamente censurabili. Netanyahu, ipotizza Friedman, potrebbe sfruttare la prospettiva di un accordo saudita per sostituire i personaggi più estremisti della sua attuale coalizione con quelli più moderati dell’opposizione, un’eventualità di cui si fa un gran parlare in questi giorni. Al momento, i leader dell’opposizione si dichiarano contrari ad entrare in un governo guidato da Netanyahu (specie se i progetti di riforma giudiziaria non verranno totalmente accantonati ndr), ma i più moderati fra loro potrebbero cambiare tono nel momento in cui un storico accordo di tale portata fosse effettivamente sul tavolo. Può essere bello immaginare che un accordo di pace con l’Arabia Saudita possa anche fermare il processo di riforma istituzionale-giudiziaria in Israele e la spaccatura del paese. Ma se Netanyahu è fortunato, non dovrà pagare per il biglietto su quel treno. Washington ne acquisterà uno per lui, e tutto ciò che dovrà fare sarà andare avanti con il suo viaggio.
(Da: Jerusalem Post, 31.7.23)