Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 30/07/2023, a pag.13 con il titolo "Un patto a quattro. Il piano di Biden per spingere Israele alla pace con Riad" l'analisi di Thomas Friedman.
Thomas Friedman
Joe Biden con Benjamin Netanyahu
Per le centinaia di migliaia di difensori della democrazia israeliana che hanno cercato di impedire il golpe giuridico del primo ministro Benjamin Netanyahu di lunedì il fatto che la Corte Suprema israeliana è stata espropriata dei suoi massimi poteri per tenere a freno il ramo esecutivo di sicuro è una sconfitta cocente. Lo capisco, ma non dispero. Non del tutto. Un aiuto potrebbe arrivare dai colloqui tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Sì, avete letto bene. La settimana scorsa, quando ho intervistato il presidente nello Studio Ovale, ho scritto che Biden sollecitava Netanyahu a non imporre la riforma giudiziaria senza neanche una parvenza di consenso da parte della nazione. Il presidente è combattuto dall’idea di cogliere l’occasione di lanciare un patto per la sicurezza reciproca tra Stati Uniti e Arabia Saudita che comporti la normalizzazione delle relazioni tra sauditi e israeliani, fermo restando che Israele faccia delle concessioni ai palestinesi tali da preservare la possibilità della soluzione dei due Stati. Dopo i colloqui dei giorni scorsi – tra Biden, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, il segretario di Stato Antony Blinken e Brett McGurk, il più alto funzionario della Casa Bianca che si occupa di politiche mediorientali –, il presidente ha inviato giovedì Sullivan e McGurk in Arabia Saudita per sondare l’eventualità di un’intesa a 4 tra Stati Uniti, Arabia Saudita, Israele e Palestina. Il presidente non ha ancora deciso se procedere in questo senso, ma ha dato via libera al suo team per verificare presso il principe Mohammed bin Salman la possibilità di un accordo, e capirne il costo. Concludere un patto di questo tipo richiederebbe tempo e sarebbe difficile e complesso, anche nel caso in cui Biden decidesse di agire subito al livello successivo. Adesso, però, i contatti esplorativi procedono spediti e ciò è importante per due motivi. Prima di tutto, un accordo di sicurezza tra Usa e Arabia Saudita in grado di garantire la normalizzazione delle relazioni tra sauditi e Stato ebraico – e di intaccare allo stesso tempo quelle tra Arabia Saudita e Cina – sarebbe un punto di svolta per il Medio Oriente, ancora più importante del trattato di pace di Camp David tra Egitto e Israele. La pace tra Israele e Arabia Saudita, custode delle due città più sante dell’Islam, la Mecca e Medina, spianerebbe la strada alla pace tra Israele e il mondo musulmano, compresi Paesi come l’Indonesia e forse il Pakistan. In secondo luogo, se gli Usa riuscissero a dar vita a un’alleanza per la sicurezza con l’Arabia Saudita – a patto che questa normalizzi i rapporti con Israele e che Israele faccia concessioni significative ai palestinesi – la coalizione di Netanyahu al governo, formata da suprematisti ebrei ed estremisti religiosi, dovrebbe rispondere alla seguente domanda: è possibile annettere la Cisgiordania oppure fare pace con l’Arabia Saudita e tutto il mondo musulmano, ma non è possibile fare entrambe le cose. Quale scegliamo? Al tavolo di gabinetto di Netanyahu non si avvierebbe così una discussione interessante? Mi piacerebbe vedere il ministro delle Finanze di destra, Bezalel Smotrich, che va in tv e spiega i motivi per i quali Israele avrebbe interesse ad annettere la Cisgiordania e i suoi 2,9 milioni di abitanti palestinesi – per sempre – ma non l’avrebbe a normalizzare le relazioni con l’Arabia Saudita e il resto del mondo musulmano. Un accordo di pace tra sauditi e israeliani potrebbe diminuire drasticamente i contrasti tra musulmani ed ebrei sorti più di un secolo fa con l’inizio del conflitto tra ebrei e palestinesi. Prima di far scegliere al governo estremista israeliano tra annessione o normalizzazione, però, molte persone dovrebbero giungere a un accordo su molte cose. Detto ciò, Jake Sullivan oggi non è a Riad in veste di turista. I sauditi vogliono ottenere tre cose importantissime da Washington: un trattato di difesa reciproco in stile Nato che imponga agli Stati Uniti di soccorrere l’Arabia Saudita in caso di attacco (presumibilmente dall’Iran); un programma nucleare a scopi civili, monitorato dagli Usa; e la facoltà di acquistare armi statunitensi più sofisticate, come il sistema di difesa missilistico antibalistico Terminal High Altitude Area Defense, utili per i sauditi nei confronti dell’arsenale israeliano in continuo incremento di missili a medio e lungo raggio. Tra le cose che gli Stati Uniti vogliono ottenere dai sauditi ci sono la fine dei combattimenti nello Yemen, dove nel corso dell’anno passato per fortuna il conflitto ha perso di intensità; un importante pacchetto di aiuti alle istituzioni palestinesi in Cisgiordania come ancora non si è visto; limiti significativi al rapporto sempre più stretto tra Arabia Saudita e Cina. Per esempio, gli Usa non sono rimasti soddisfatti quando l’anno scorso Riad ha preso in considerazione l’idea del renminbi cinese al posto del dollaro Usa per fissare il prezzo di alcune vendite di petrolio alla Cina. Tenuto conto del peso economico di Cina e Arabia Saudita, con il passare del tempo questa decisione avrebbe un impatto molto negativo sul dollaro e sul suo ruolo di principale valuta mondiale. Quella eventualità dovrebbe essere scongiurata.
Gli Stati Uniti desiderano anche che i sauditi riducano i loro rapporti con i colossi cinesi dell’hi- tech come Huawei, i cui dispositivi per le tlc più recenti sono vietati negli Usa. Si tratterebbe della prima volta che un accordo di sicurezza reciproca viene sottoscritto dagli Stati Uniti con un governo non democratico da quando Eisenhower ne firmò uno con la Corea del Sud pre-democratica nel 1953, e sarebbe indispensabile l’approvazione del Senato. Altrettanto importante, comunque, è che cosa chiederebbero i sauditi a Israele per salvaguardare la prospettiva della soluzione dei due Stati, proprio come gli Emirati chiesero a Netanyahu di rinunciare a qualsiasi tipo di annessione della Cisgiordania in cambio dei loro Accordi di Abramo. Le autorità saudite non prestano particolare attenzione ai palestinesi e non sono competenti in fatto di complessità del processo di pace. Nel caso in cui giungesse a un accordo senza una significativa componente palestinese, lo staff di Biden assesterebbe un colpo mortale sia al movimento democratico israeliano – concedendo a Netanyahu un bonus geopolitico enorme e gratuito – sia alla soluzione dei due stati, perno portante di tutta la diplomazia Usa in Medio Oriente. Non credo che Biden farà una cosa del genere. Scatenerebbe una ribellione nella base progressista del suo partito e renderebbe pressoché impossibile la ratifica del trattato. «Per il presidente Biden sarà abbastanza complicato far sì che il Congresso accetti un accordo di questo tipo», mi ha detto il senatore Chris Van Hollen, rappresentante dem del Maryland nel Comitato per le Relazioni estere del Senato e nella Sottocommissione della Camera per le operazioni estere che finanzia il Dipartimento di Stato. «Posso assicurare, però, che tra i democratici ci sarà uno zoccolo duro considerevole di oppositori che respingeranno qualsiasi proposta che non includa clausole volte a tutelare la soluzione dei due Stati e soddisfare l’istanza di Biden che palestinesi e israeliani godano di libertà e dignità in ugual misura. Si tratta di fondamenti basilari in qualsiasi accordo sostenibile di pace in Medio Oriente».
Sauditi e americani dovrebbero esigere 4 cose da Netanyahu in cambio di qualcosa di così prezioso come la normalizzazione e gli scambi commerciali con lo Stato arabo musulmano più importante: l’impegno formale a non annettere la Cisgiordania, mai; nessuna nuova colonia o espansione in Cisgiordania fuori dagli insediamenti già esistenti; nessuna legalizzazione di avamposti di insediamenti ebraici non programmati; il trasferimento di parte del territorio palestinese dall’Area C in Cisgiordania (al momento sotto pieno controllo di Israele) alle Aree A e B (sotto il controllo dell’Anp) – come previsto dagli Accordi di Oslo. In cambio, l’Autorità Nazionale Palestinese dovrebbe sottoscrivere l’accordo di pace dell’Arabia Saudita con Israele. A dire la verità, oggi l’Anp non si trova in una posizione tale da poter intavolare colloqui di pace con Israele. È sottosopra. I palestinesi devono rinnovare il loro governo, ma nel frattempo i ministri di estrema destra del gabinetto israeliano stanno cercando di assimilare quanto più territorio possibile della Cisgiordania il più rapidamente possibile. È indispensabile che questo cessi immediatamente,ma senza che il Dipartimento di Stato debba agitare il dito indice per far capire quanto gli Usa sono “gravemente preoccupati” per gli insediamenti israeliani. Sarebbe meglio un’importante iniziativa strategica imperniata su qualcosa di significativo per tutti, a esclusione dei fanatici di tutte le parti in causa. Un accordo, di qualsiasi tipo, richiederà mesi di difficili negoziati tra Stati Uniti, Arabia Saudita, Israele e Anp. Nel migliore dei casi, si tratterà di una scommessa azzardata. Se però Biden deciderà di provarci, se gli Stati Uniti riusciranno a mettere a punto un accordo di enorme interesse strategico per l’America, per Israele e per l’Arabia Saudita (ammettendola nel club più che esclusivo dei Paesi sotto l’ombrello protettivo degli Usa), se riusciranno a rilanciare le speranze palestinesi di una soluzione con due Stati, si tratterà di un trattato molto importante. Se poi, così facendo, si dovesse costringere Netanyahu a lasciar perdere gli estremisti del suo governo e a fare causa comune con il centrosinistra e il centrodestra di Israele, il nuovo trattato non sarebbe anche la ciliegina sulla torta?
Traduzione di Anna Bissanti