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La Repubblica Rassegna Stampa
23.07.2023 Usa 2024: sarà ancora duello Biden vs Trump?
Analisi di Paolo Mastrolilli

Testata: La Repubblica
Data: 23 luglio 2023
Pagina: 21
Autore: Paolo Mastrolilli
Titolo: «Corsa obbligata»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 23/07/2023, a pag. 21, con il titolo "Corsa obbligata" l'analisi di Paolo Mastrolilli.

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Paolo Mastrolilli

E se alla fine non fossero loro due? Tutto lascia presumere che le presidenziali americane del 2024 saranno una ripetizione del 2020, con il secondo atto della sfida tra Joe Biden e Donald Trump. Indissolubilmente legati l’uno all’altro dal filo doppio dell’inevitabilità. Perché il primo è il capo della Casa Bianca in carica e i democratici sono convinti che resti l’avversario migliore contro il secondo, mentre il secondo non ha rivali repubblicani in grado di scalfire il suo culto nella base del partito. Così il cane continua a mordersi la coda, a scapito della volontà della larga maggioranza degli americani, perché secondo un sondaggio condotto alla fine di aprile dalla televisione Nbc il 70% degli elettori registrati non vorrebbe che Biden corresse, e il 60% dice lo stesso di Trump. La differenza del 10% dipende forse dall’età più avanzata di Joe, come se Donald a 77 anni suonati fosse un ragazzino, e dall’ottusa determinazione dei suoi seguaci ad ignorare la realtà, anche quando si presenta sotto forma di condanna civile per abusi sessuali contro la giornalista Jean Carroll, inchiesta sull’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, o registrazioni in cui ammette di essersi portato a casa illegalmente documenti segreti, ostruendo poi la giustizia che cercava di recuperarli. Il discorso non è molto diverso nel rilevamento fatto il 13 giugno da Economist- YouGov, dove solo il 33% degli elettori vorrebbe che Trump si ricandidasse, contro il 56% che preferirebbe lasciarlo nel dimenticatoio della storia, mentre il 26% sarebbe favorevole al secondo mandato di Biden, contro il 59% che lo manderebbe volentieri in pensione. Ma è davvero necessario che sia così? Si è chiesto sul Wall Street Journal Karl Rove, già eminenza grigia delle due corse vincenti di Bush figlio alla Casa Bianca. Sarebbe davvero impossibile “Buttare fuori i due vecchi arrabbiati”, come ha titolato il quotidiano economico di Manhattan, e forzare un cambiamento generazionale? «Ci sono molte ragioni - ha chiosato Rove - per cui agli americani potrebbero non piacere i due favoriti. Magari vedono Biden troppo debole e spostato a sinistra, o Trump troppo distruttivo e corrotto. Però questi sondaggi potrebbero anche rivelare il desiderio di un cambiamento generazionale. Gli americani forse pensano di poter fare di meglio come presidente, rispetto a due uomini che avranno insieme 160 anni quando nel 2024 andranno a votare». Ma come sono arrivati gli Stati Uniti ad incastrarsi in un vicolo cieco così insuperabile, e come potrebbero venirne fuori? Un noto operativo del Partito democratico, che ha avuto ruoli rilevanti nell’amministrazione di Washington e rapporti di amicizia personale con più di un presidente, ci spiega così la dinamica, in cambio dell’anonimato: «Io ho sempre pensato che Biden dovesse fare un solo mandato, e accompagnare il Partito verso il cambiamento generazionale. Poteva lasciare da una posizione di grande prestigio, avendo fatto un magnifico lavoro. Perché ha fatto davvero un lavoro straordinario. Prima cosa è riuscito a fermare Trump, che come abbiamo visto dall’assalto al Congresso, non aveva alcuna remora a cancellare la democrazia americana pur di soddisfare la sua brama di potere. Quindi Joe ha riequilibrato il nostro partito, non solo rivincendo gli Stati chiave di Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, ma riportando a casa molti colletti blu ed elettori della classe media e bassa, che un tempo costituivano la base naturale dei democratici, ma poi erano passati con i repubblicani perché si sentivano abbandonati da una formazione diventata ormai paladina dell’élite ricca e istruita. Una volta conquistata la Casa Bianca, Biden ha mantenuto le promesse nel concreto, spostando il partito dalla dottrina neoliberista che lo aveva dominato durante gli anni di Clinton e Obama, verso posizioni più naturali del progressismo socialdemocratico. Non solo a parole ma con i fatti, tipo gli stimoli economici varati per superare la crisi del Covid, quelli per ricostruire le infrastrutture, l’impegno a favore della transizione verde contro i cambiamenti climatici. E poi riprendere la produzione interna dei chip, riportare in casa i settori strategici della catena di approvvigionamento, continuare la sfida alla prepotenza economica della Cina, rilanciando l’occupazione anche manifatturiera in America. Forse non tutti notano ancora questi meriti di Biden perché l’inflazione, provocata dalla ripresa della domanda e da fattori esterni come i colli di bottiglie della supply chain, li ha nascosti. Però l’inflazione sta calando e la storia alla lunga li riconoscerà. Sommandoli all’abilità con cui ha gestito l’invasione russa dell’Ucraina, e rilanciato l’alleanza occidentale contro le autarchie, tracciano il profilo di una presidenza di grande successo». Tutto questo, secondo la nostra fonte, «avrebbe potuto convincere Biden a farsi da parte, per lasciare il posto al governatore della California Gavin Newsom, che era il mio preferito. Ma dietro a lui c’erano anche molti altri potenziali candidati assai interessanti, e migliori della vice presidentessa Kamala Harris, come il governatore dell’Illinois JB Pritzker, quella del Michigan Gretchen Whitmer e quello del Maryland Wes Moore. Il dibattito interno al partito su questo dilemma è stato molto intenso, anche se non è davvero affiorato alla superficie, sotto gli occhi del pubblico. Il problema però è che quando assaggi il sapore del potere, rinunciarci poi diventa molto difficile. Biden ha deciso di ricandidarsi e in questo modo ha paralizzato la successione. Gli elettori vorrebbero il ricambio, ma la leadership del Partito lo teme, anche perché resta convinta che se Trump verrà nominato dai repubblicani, sarà più facile ripetere il risultato del 2020 con Joe, che non con un altro cavallo meno rodato. Basta che riesca a riportare alle urne grosso modo gli stessi elettori di quattro anni fa, confidando sul fatto che anche Donald sarà capace di replicare il suo risultato, senza però conquistare i nuovi consensi degli indipendenti di cui avrebbe assolutamente bisogno per vincere gli Stati chiave che gli erano sfuggiti quattro anni fa, tipo Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, più le sorprese meridionali di Georgia e Arizona». L’operativo pensa che sia stata un’occasione persa, perché «partendo per tempo con uno dei nuovi potenziali candidati si poteva ottenere lo stesso successo, avviando anche un cambio generazionale capace di assicurarci un futuro di vittorie. Però non è stato fatto, e a questo punto l’unica cosa che potrebbe fermare Biden sarebbe un grave problema di salute, che naturalmente nessuno si augura, perché ci precipiterebbe nell’emergenza Un incoraggiamento viene dal fatto che «i repubblicani hanno esagerato a giocare la loro mano. Tutti gli americani sanno che hanno costruito la super maggioranza conservatrice della Corte Suprema con un trucco, perché il loro leader al Senato McConnell aveva prima negato ad Obama nel 2016 di nominare il successore del giudice Scalia, sostenendo che non poteva farlo durante un anno elettorale, ma poi si era rimangiato questo principio inesistente nei nostri ordinamenti, consentendo a Trump di scegliere chi succedeva a Ginsburg alla vigilia del voto del 2020. E come hanno usato questa truffa i conservatori? Emettendo quattro sentenze che hanno cambiato nella pratica le vite di milioni di americani, rovinandole. La prima è quella che ha cancellato la legalità dell’aborto a livello federale; la seconda ha abolito l’ affirmative a favore delle minoranze per le ammissioni nelle università; la terza contro i gay, nella vicenda della disegnatrice di siti internet del Colorado che sirifiutava di lavorare per loro; la quarta bloccando l’iniziativa di Biden per alleggerire il peso dei prestiti presi dagli studenti per frequentare le università. La destra ha esultato, perché da anni cercava di cambiare così il volto dell’America, ma la gran parte del nostro paese non la pensa così: i conservatori negli Usa non hanno una maggioranza di 6 a 3, ossia di due terzi. Se queste sentenze non motiveranno ad andare alle urne donne, minoranze, omosessuali e giovani, che ogni anno al diciottesimo compleanno aggiungono 4 milioni di nuovi elettori, non so proprio cosa potrebbe farlo. Ma credo che la mobilitazione avverrà, e sarà un importante fattore per ricreare una coalizione vincente tra democratici, indipendenti e moderati». Poi sullo sfondo ci sono i problemi giudiziari di Trump, legati a prove assai documentate, come l’assalto al Congresso o la registrazione audio in cui si vanta di aver portato nel suo resort di Bedminster i piani segreti per l’attacco all’Iran: «Non sappiamo come si comporterà la giudice in Florida incaricata del processo sui documenti segreti, perché è stata nominata da lui e appartiene all’ala conservatrice più estremista. Però le prove sono evidenti e gli americani le vedono, mentre il caso sull’assalto al Congresso si giocherà nella più liberal Washington. Le incriminazioni aiutano Trump nelle primarie, perché rafforzano la devozione cieca della sua base, ma durante le elezioni nazionali è probabile che abbiano l’effetto opposto sugli indipendenti stanchi del caos, che l’ex presidente dovrebbe strappare a Biden per batterlo. Quindi la speranza di riuscire a fermare ancora l’autocrate repubblicano esiste, anche se sarebbe stata più solida con un candidato più giovane e moderno». Sul fronte repubblicano l’analisi la conduce un “fat cat”, ossia uno dei grandi finanziatori del Gop. Anche lui ha avuto ruoli di grande importanza nell’amministrazione americana e nel partito, ha frequentato lo Studio Ovale, e conserva rapporti di grande confidenza e familiarità con dinastie presidenziali.È tuttora nella stanza dove succedono le cose e le conosce per esperienza diretta, cosa che lo spinge ad essere molto franco, in cambio della promessa di parlare anche lui in background: «Io non ho nulla contro le politiche di Donald Trump. Anzi, per la maggior parte le condivido: la battaglia contro la cultura liberal “woke”, il controllo dell’immigrazione, la riduzione delle tasse, un’economia libera di realizzare le sue potenzialità senza i legacci di troppe regole, la limitazione dell’ingerenza dello Stato. Però non ritengo che sia lui il candidato a cui dovremmo affidarci per portarle avanti, per ragioni di carattere e anche di età, perché se Biden è vecchio lui non è certo un ragazzino». Quindi il “fat cat” spiega: «Io sostengo il governatore della Florida Ron DeSantis, tanto sul piano politico, quanto finanziario. Lo faccio perché lo conosco bene, c ondivido la sua linea, e penso sia la linfa giovane di cui ha bisogno il Partito repubblicano. Però sono sicuro che perderà le primarie». Singolare, una dichiarazione così sincera e allo stesso tempo contraddittoria: «La ragione è molto semplice. Nelle presidenziali, e in particolare le primarie, la “name recognition” è tutto: se gli elettori non ti conoscono, e non fai in tempo a definirti, non hai alcuna possibilità di convincerli. Noi abbiamo raccolto molti fondi elettorali per DeSantis, in particolare attraverso il SuperPac Never Back Down, che ha grandi risorse a disposizione per presentarlo all’America. Però per quanto stia governando bene in Florida, realizzando nella pratica le politiche conservatrici che Trump aveva solo promesso, ciò non basta a vincere a livello nazionale. L’ex presidente è imbattibile, almeno nella base del partito, e le incriminazioni non hanno fatto altro che rafforzare la sua posizione». Quindi la sua nomination è praticamente scontata, a meno di sorprese straordinarie che anche nel suo caso potrebbero riguardare la salute, visto che in base alla Costituzione neppure una condanna penale lo costringerebbe a ritirarsi. I problemi però verranno dopo: «Trump vincerà le primarie, ma ci farà nuovamente perdere le presidenziali. La ragione sta nei sondaggi riservati del nostro partito, che danno un responso molto chiaro: negli Stati chiave per conquistare il Collegio elettorale, come Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Georgia, Arizona, Nevada, New Hampshire, il vantaggio di Biden tra gli elettori indipendenti è già troppo ampio per essere colmato. Per ribaltare la sconfitta del 2020, perché nel 2020 Trump aveva perso le elezioni, sarebbe assolutamente necessario strappare alcuni di questi consensi ai democratici. Lui però ha un bagaglio troppo pesante, e non sta facendo nulla per alleggerirlo. Anzi, gran parte della sua campagna elettorale consiste nel ripetere che gli hanno rubato le elezioni e vuole vendicarsi. Questo è un programma che forse consolida la sua base, ma non promette certo di fargli conquistare nuovi elettori indipendenti negli Stati chiave dove è già troppo indietro rispetto a Biden. E anche se le inchieste contro di lui fossero manovrate da procuratori complici dei democratici, l’effetto di immagine non può essere positivo tra i moderati, perché lascia presagire altri quattro anni di caos, tumulti e instabilità. Per non parlare poi di prove come quelle relative ai documenti segreti trafugati a Mar a Lago, che non solo si stanno dimostrando piuttosto stringenti, ma riguardano un tema molto caro ai repubblicani come quello della sicurezza nazionale Nel caso del Partito repubblicano le alternative ci sarebbero, nel senso che come nel 2016 c’è una marea di candidati: il governatore della Florida Ron DeSantis, l’ex vice presidente Mike Pence, l’ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley, l’imprenditore Vivek Ramaswamy, l’ex governatore dell’Arkansas Asa Hutchinson, il senatore nero della South Carolina Tim Scott, l’ex governatore del New Jersey Chris Christie, il governatore del North Dakota Doug Burgum, il sindaco di Miami Francis Suarez, l’ex deputato e agente della Cia Will Hurd, più i governatori di Virginia e South Dakota Glenn Youngkin e Kristi Noem, che non hanno ancora deciso cosa fare, così come l’ex deputata del Wyoming Liz Cheney e l’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. Il problema è che nessuno di loro sta dimostrando di avere alcuna trazione nelle primarie. Qualche mese fa DeSantis era addirittura avanti a Trump, ma poi ha sbagliato quasi ogni mossa, mentre Donald è stato sospinto dalle incriminazioni e dal suo talento naturale per attirare l’attenzione. Così, se esisteva una potenziale base elettorale di opposizione interna capace di fermarlo, come nel 2016 si sta disperdendo fra troppi candidati deboli, con l’unico risultato di aprire ancora di più la porta al ritorno di Donald. Una minaccia per Biden poi viene dagli indipendenti, che potrebbero fare gli stessi danni di Ralph Nader contro Al Gore nel 2000. Robert Kennedy, figlio dell’ex segretario alla Giustizia ucciso a Los Angeles, si è candidato alle primarie democratiche, con un programma bizzarro basato sull’opposizione ai vaccini e altre posizioni per certi versi simili a quelle di Trump, che hanno spinto persino sua sorella Kerry ad implorare gli elettori di non votarlo, pur riaffermando il proprio amore personale. Kennedy non ha una possibilità di conquistare la nomination democratica, ma se dopo aver perso le primarie si facesse saltare in testa di correre da indipendente, anche solo portando via uno zero virgola di voti a Joe negli Stati chiave potrebbe riconsegnare la Casa Bianca a Donald. Poi c’è il filosofo Cornel West, che dopo aver flirtato col People’s Party, ora ambisce alla nomination del Green Party. Infine c’è il gruppo No Labels che sta tentando il senatore democratico della West Virginia Joe Manchin ad abbandonare il suo partito, a cui ormai lo lega poco o nulla viste le sue posizioni conservatrici, per lanciare l’avventura presidenziale. Tutte mine vaganti, che però minacciano di esplodere sotto la chiglia della nave di Biden, già impegnata a navigare in acque difficili a causa della sua età. La media dei sondaggi nazionali fatta dal sito RealClearPolitics al momento vede Joe davanti a Donald di mezzo punto. Secondo il sito Crystal Ball del politologo della University of Virginia Larry Sabato, nella corsa agli Stati che determina la composizione del Collegio elettorale, e quindi l’inquilino della Casa Bianca, i democratici possono contare in partenza su 260 voti e i repubblicani su 235. I “toss-up”, ossia quelli incerti da cui dipenderà l’esito finale, sono solo quattro: Georgia, Wisconsin, Arizona e Nevada, dove ormai gli ispanici sono tentati dalle sirene del Gop. Lui stesso in realtà ammette che questa è una visione un po’ esagerata, perché assegna con troppo ottimismo ai democratici la Pennsylvania, il Michigan e anche il New Hampshire, dove la decisione di trasferire le primarie di apertura della stagione elettorale in South Carolina potrebbe costare cara a Biden nel voto nazionale di novembre. Lo stesso discorso vale al rovescio per la North Carolina, non poi così sicura di finire ai repubblicani. L’analisi però rende l’idea di una sfida che si preannuncia ancora una volta molto combattuta, almeno sul piano del Collegio elettorale, perché sul voto popolare nazionale ormai il vantaggio dei democratici sembra incolmabile. Questo se i candidati saranno effettivamente Joe e Donald, perché l’intera dinamica cambierebbe, se uno dei due alla fine non ce la facesse, o fosse costretto al ritiro da uno dei tanti talloni di Achille. «Per ora - ha notato Karl Rove - la maggior parte degli elettori delle primarie repubblicane e democratiche è fortemente orientata verso Trump e Biden. Ma una rivincita tra questi due vecchi sarebbe più cattiva e brutta di quanto non sia stata nel 2020. L’affluenza alle urne potrebbe diminuire, perché tanti elettori si sentirebbero esclusi. La nostra nazione è profondamente divisa e arrabbiata; affronta enormi sfide in patria e pericoli all’estero. Questi sono temi che verrebbero meglio affrontati da una nuova leadership energica. Qualunque sia il partito che lo capirà prima, avrà il sopravvento l’anno prossimo».

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