L'obiettivo di Putin è destabilizzare l'Europa Analisi di Vittorio Emanuele Parsi
Testata: Il Foglio Data: 20 luglio 2023 Pagina: 1 Autore: Vittorio Emanuele Parsi Titolo: «Le altre armi di Putin»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 20/07/2023, a pag.1, con il titolo "Le altre armi di Putin" l'analisi di Vittorio Emanuele Parsi.
Vittorio Emanuele Parsi
Putin allo specchio: ecco Stalin
La battaglia del grano di Putin è ben diversa da quella di mussoliniana memoria. Il despota del Cremlino non intende conseguire l’autosufficienza alimentare per il suo popolo, come vagheggiava il duce del fascismo alla ricerca di, già allora, impossibili autarchie. A Vladimir Putin, evidentemente, del suo popolo interessa poco o nulla, altrimenti non lo avrebbe mandato a morire per riportare l’aquila (bicipite) dell’impero sulle cupole fatali di Mosca, invadendo un paese vicino e massacrando un popolo fratello. Degli ucraini, il popolo fratello di cui sopra, gli importa evidentemente ancor meno. Altrimenti non ne bombarderebbe con metodica crudeltà gli ospedali e i ristoranti, i centri residenziali e i teatri, anche quando questi ultimi sono stipati di donne e bambini, e non ne farebbe rapire dai suoi orchi i fanciulli e stuprare le fanciulle. Figuriamoci che cosa gliene può allora importare delle decine di milioni di abitanti dell’Africa e dell’Asia che si ritroveranno a non poter acquistare semola e pane. La sua strategia si condensa nel motto “tanto peggio, tanto meglio”. Dal momento che ha deciso non solo di invadere l’Ucraina, rea di aver scelto la via dello sviluppo e della democrazia mentre la sua Russia si incamminava per la tenebrosa strada della corruzione e del dispotismo, ma anche di attaccare l’ordine internazionale e le sue regole, di provare a farlo “saltare” per sostituirlo con il suo oscuro, disperato, nichilistico disegno, tutto ciò che concorre a creare caos e distruzione ritiene gli faccia gioco. Questo mediocre cavaliere dell’Apocalisse, che troppi cinici sprovveduti hanno voluto scambiare per statista, è pronto ad aggiungere la fame alla piaga della guerra, nella speranza di creare all’odiato occidente più problemi di quanto esso possa e voglia gestire. Sa bene che gli occidentali sono i soci di maggioranza di quel direttorio informale che, nei limiti del possibile e tra mille errori e contraddizioni, prova a dare un governo al mondo. Conosce le nostre difficoltà domestiche, sulle quali ha continuamente speculato provando a influenzare elezioni parlamentari e presidenziali e referendum, finanziando più di un partito della destra populista, dalla Francia all’Italia, soffiando sul fuoco dell’iniquità e dell’insufficienza delle classi dirigenti democratiche. Ha alimentato e alimenta il disagio dell’opinione pubblica di fronte a una guerra in cui utili e prezzolati idioti – che siano singoli o testate o riviste – ripetono a macchinetta le frottole propagandistiche del Cremlino, mille volte smentite, o più subdolamente insinuano continuamente che ogni successo ucraino non possa mai essere risolutivo, che la Russia non potrà mai perdere la guerra a meno di entrare noi in guerra contro di lei e spalancare l’Armageddon della “terza guerra mondiale”. Putin sa che affamando i poveri del cosiddetto sud globale rende ancora più grottesca la sua postura di vendicatore degli “ultimi della Terra”, ma è anche ben conscio che le masse diseredate di quei paesi sono intermediate dalle loro élite, dai loro governi corrotti e dai sodali di questi ultimi, che spesso sono espressione di strutture di potere non così dissimili da quelle della Russia, e che definirei “autocrazie cleptocratiche”. Non bastasse, persino tra i non molti paesi del sud che possono essere ascritti al novero dei regimi democratici, la Russia sa di poter contare su leadership nelle quali il risentimento anti occidentale e forme di populismo post o para peronista pagano più di qualunque altra moneta per coprire i limiti e le miserie dell’azione di governo. Basterebbe in tal senso rileggere le sconcertanti parole del presidente brasiliano Lula al vertice tra America latina, Caribe ed Europa. La solita rampogna terzomondista, che condanna la guerra senza condannare l’aggressore, e anzi addossando all’occidente la responsabilità di farla continuare per il solo fatto di sostenere l’Ucraina. Si intuisce che le leadership di paesi che si sono fatte guerre da operetta per i più futili motivi, e dall’incerto cammino democratico, facciano poi fatica a cogliere con chiarezza che il loro avvenire sarebbe ancora più complicato in un mondo in cui le autocrazie dovessero dettare legge così come che quello che si gioca in Ucraina è anche il futuro dei loro popoli e non solo degli ucraini o degli occidentali. Come constatiamo, il campo delle democrazie è tutt’altro che solido e solidale e le autocrazie hanno buon gioco a sfruttare vecchie solidarietà di matrice post gauchista e vetero-sindacale. Ma tra le democrazie consolidate, tra le democrazie consapevolmente occidentali (tra le quali si possono collocare il Giappone, Taiwan e la Corea del sud, molto meno il Brasile) per ora l’allineamento tiene ed è proprio questo allineamento che Putin cerca di colpire con tutti i suoi siluri propagandistici e politici. E nei confronti dell’Europa l’arma della guerra del grano è sottile, perché contribuisce a mettere sotto pressione i nostri sistemi democratici contribuendo ad acuire l’emergenza migratoria. Ovviamente, non è la Russia di Putin con la sua guerra del grano a creare l’emergenza. I flussi migratori sono la conseguenza di decenni di rapporti mal curati tra il nord e il sud del Mediterraneo, di corruzione endemica delle classi politiche locali e di compiacente sfruttamento da parte nostra, e si sono aggravati in conseguenza del cambiamento climatico e dell’innalzamento delle temperature. Detto ciò, un punto di onestà intellettuale va fatto. I migranti per la maggior parte delle opinioni pubbliche dei paesi che ne sono attraversati o che ne costituiscono la metà finale sono considerati un problema. La scarsa solidarietà europea, e persino quella trans-mediterranea, non rappresentano altro che la trasposizione di questa lapalissiana verità. La difficoltà a gestire la questione in maniera efficace, solidale (tra paesi europei e tra paesi di attraversamento) e umana (verso i migranti) sta tutta qui, nell’opposizione tra aspettative legittime ma difficilmente componibili: quella di chi emigra a cercare condizioni migliori di vita e quelle di chi dovrebbe riceverli a non esserne invaso, tanto più in maniera disordinata. E’ questo che rende fragile qualunque accordo, compresi quelli più o meno conclusi dalla premier Meloni a Tunisi. I tunisini, appena potranno, li applicheranno alla loro maniera. La via di tentare un accordo con la Tunisia simile a quello stipulato a suo tempo con la Turchia trova il principale ostacolo nella scarsa efficacia delle istituzioni di Tunisi rispetto a quelle di Ankara e molto meno nella loro minore democraticità. Anche qui occorre uscire dalla retorica. Parliamo di accordi che cercano di tamponare, e non di risolvere, la situazione: accordi che le democrazie devono poter stipulare anche con i governi non democratici, se questi sono gli unici interlocutori su piazza. E il fronte delle democrazie, allora? Spiace doverlo ricordare, ma le democrazie fanno fronte compatto, laddove una linea del fronte c’è, ovvero quando i sistemi autoritari le attaccano direttamente o indirettamente, come sta facendo la Russia in Ucraina. Ma non possiamo e non dobbiamo tenere un atteggiamento analogo nei confronti di quei regimi autoritari che non costituiscono (e fino a quando non costituiscono) una minaccia nei nostri confronti. Non si tratta di cinismo, ma di realismo politico illuminato dai principi che le democrazie possono tutelare solo se sopravvivono agli attacchi portati dalle non-democrazie. Non siamo gli sceriffi del mondo, ma neppure le dame di carità globali. Non possiamo imporre agli altri le istituzioni democratiche, ma neppure possiamo farci carico dei problemi dell’umanità intera. La politica anche – e direi soprattutto – in democrazia è l’arte del possibile illuminata dal desiderabile e dallo sforzo continuo per raggiungere gli obiettivi – concreti e ideali – che cerchiamo di perseguire. In termini più complessivi, la sola via di uscita che può, in tempi non immediati, rendere compatibili le aspirazioni legittime tra le società di emigrazione (forzata) e quelle di immigrazione (altrettanto forzata) è rappresentata dallo sviluppo economico, politico e sociale delle prime accompagnato dal non imbarbarimento delle seconde. Creare sviluppo significa investire in quei territori secondo criteri di convenienza economica e di opportunità politica, non fare beneficenza. Si tratta di un processo lungo, che cerca di rendere meno “obbligata” la scelta di emigrare e più “promettente” quella di restare. Per accelerare i tempi di questa inversione di tendenza – che prevede comunque l’assorbimento di quote anche importanti di migranti utili alle nostre economie e alle nostre società – bisogna mettere mano al portafoglio, possibilmente a livello europeo. In questo senso il “Piano Mattei” evocato dalla premier non è un’idea campata in aria, ma va sostanziata ed elaborata e va spiegata bene tanto ai partner europei, quanto ai governi dei paesi target quanto, infine, alle nostre opinioni pubbliche delle quali si dovrà ottenere il consenso. Perché tutto ciò ha comunque un costo e le risorse non sono illimitate. Bisognerà farlo, mentre la propaganda putiniana cercherà di convincere le nostre opinioni pubbliche che basta smettere di sostenere l’Ucraina e di difendere le nostre democrazie migliorando le nostre difese per trovare i soldi necessari. “Si svuotino gli arsenali, si riempiano i granai!” è un bello slogan, ma non è un programma politico, tanto meno nel bel mezzo di una spietata guerra di aggressione. Già lo insinuano per le pensioni, la sanità, l’istruzione e i trasporti... ecco perché è così importante parlare chiaro al paese, spiegare nei dettagli che cosa sia questo Piano Mattei, quanto costerà, dove si troveranno le risorse. Nel frattempo, rendere meno agevole l’emigrazione irregolare, chiedendo agli stati di transito – dalla Turchia alla Tunisia a quelli del Sahel e dell’Africa subsahariana – di farsi carico di controlli e vigilanza è l’unica strada possibile.
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