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Il Foglio Rassegna Stampa
01.07.2023 Come Orwell arrivò in Unione Sovietica
Analisi di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 01 luglio 2023
Pagina: 6
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Orwell a Mosca»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 01/07/2023, a pag. 6, l'analisi di Giulio Meotti dal titolo “Orwell a Mosca”.

Informazione Corretta
Giulio Meotti

Remembering George Orwell, the Socialist
George Orwell

E’ sicuro tenere questo libro a casa durante la notte?’, mi chiese mia madre, quando a Leningrado, a metà degli anni Settanta, degli amici mi prestarono per un paio di giorni una copia di 1984”. Così si apre “Orwell in Russia”, il libro di Masha Karp appena pubblicato da Bloomsbury. “Omaggio alla Catalogna” arrivò sotto forma di un piccolo libro grigio che entrava in tasca, stampato dalle Editions de la Seine in Belgio, senza la data di pubblicazione né il nome del traduttore. Karp racconta come George Orwell, il “libellista anticomunista di second’ordine” (parole di Italo Calvino), giunse per vie segrete in Unione sovietica, il paradiso degli operai che lo scrittore inglese aveva sbeffeggiato nei suoi due capolavori. Già nel 1940 Orwell aveva capito che “tutte le persone moralmente rette sanno che il regime russo fa schifo”. Lesse “Assignment in Utopia” di Eugene Lyons del 1937. In qualità di corrispondente da Mosca per la United Press International, Lyons aveva assistito ai “mostruosi processi di stato” di Stalin. L’assurda formula orwelliana “2 + 2 = 5” riflette lo slogan sovietico “il piano quinquennale in quattro anni”, che in seguito passò dal libro di Lyons a “1984”. Come Orwell avrebbe scritto nel saggio “Inside the Whale”, gli apologeti occidentali dell’Urss “possono inghiottire il totalitarismo perché non hanno esperienza di nient’altro se non del liberalismo”. Orwell il 18 maggio 1944 comunica a Noel Willmett la genesi del suo nuovo romanzo: “Rispetto alla gente comune, gli intellettuali hanno una tendenza totalitaria. L’intellighenzia britannica si è opposta a Hitler, ma al prezzo di accettare Stalin. Molti di loro sono pronti alla falsificazione della storia”. Intellettuali, scrisse Orwell, capaci di sostenere che “due più due fa cinque”. A spingerlo a scrivere “1984” fu anche la testimonianza di un biologo di Oxford, John Baker, a una conferenza a Londra. Baker in quell’occasione denunciò la perversione della teoria sovietica dell’agronomo di Stalin, Trofim Lysenko, e “la degradazione della scienza sotto un regime totalitario”.

Scriverà così Orwell in “1984”: “La scienza, nel suo vecchio significato, ha cessato di esistere”. A Orwell serviranno diciotto mesi e la fine della guerra perché l’editore londinese Warburg si decida a pubblicare “La fattoria degli animali”. Nessuna censura ufficiale a proteggere l’alleato Stalin dall’inglorioso ritratto che Orwell ne fa come Napoleone il maiale; basta una campagna di sussurri. “Chiunque sfidi l’ortodossia imperante – osserva lo scrittore in una lettera – viene fatto tacere con sorprendente efficacia”. L’editrice americana dice a Orwell che il pubblico d’oltreoceano “non ama le storie di animali”. Persino il poeta T. S. Eliot restituisce il manoscritto ritenendolo troppo pericoloso per la sua casa editrice Faber & Faber. L’editore di Orwell fino a quel momento, Victor Gollancz, ardente difensore dell’Unione sovietica, non solo respinge il libro, ma scoraggia anche le altre case a pubblicarlo. Così dodici editori dicono di no. “La fattoria degli animali” uscirà per Warburg nell’agosto 1945, quattro mesi dopo la resa della Germania nazista. Nel febbraio successivo il libro viaggiò verso est e venne letto da un giovane studioso di lingue e letteratura altamente istruito, Ihor Ševcenko, un rifugiato di origine ucraina che aveva trascorso gli ultimi anni della guerra conseguendo un dottorato in un’università di Praga. Ševcenko era cresciuto da genitori che, durante la Rivoluzione russa, avevano contribuito a guidare un movimento contro i bolscevichi per l’indipendenza dell’Ucraina. Lì, aveva tradotto il libro ad alta voce in ucraino mentre leggeva (Ševcenko aveva imparato l’inglese ascoltando la Bbc). Scrisse a Orwell l’11 aprile 1946, chiedendo se poteva pubblicare il romanzo in ucraino per far divertire i suoi “connazionali”. Orwell accettò, rifiutò qualsiasi royalty e cercò di coinvolgere nella publicazione il suo amico Arthur Koestler, autore del romanzo distopico “Buio a mezzogiorno”. Un anno dopo, Ševcenko aveva finito la sua traduzione. Ma ne furono distribuite solo duemila copie e un camion proveniente da Monaco venne fermato e perquisito dai soldati americani. I libri furono consegnati alle autorità sovietiche per il rimpatrio e a Mosca distrutti. Ševcenko non è mai stato interrogato o ritenuto responsabile; aveva pubblicato con lo pseudonimo di “Ivan Cherniatyns’kyi”, una combinazione del nome di battesimo di suo padre e del nome da nubile di sua madre. Negli anni che seguirono, conseguì il suo secondo dottorato in Belgio, studiando storia bizantina sotto l’eminente studioso Henri Grégoire, che lo mise sulla strada per diventare uno studioso di fama mondiale di storia bizantina e slava. Alla fine di giugno del 1949, a Orwell arriva una lettera in russo. Era di Vladimir Gorachek, il capo della casa editrice russa Possev, che rappresenta i “bianchi russi”. La lettera era arrivata con un fascio di documenti contenente la traduzione della “Fattoria degli animali”. Gorachek chiese all’autore il permesso di pubblicarlo, che Orwell concesse, aggiungendo: “Naturalmente, non voglio soldi, ma una o due copie del libro”. Orwell diede a Possev mille marchi tedeschi per la serializzazione di una traduzione tedesca di “1984” sulla rivista Der Monat. “Le copie devono entrare nella zona sovietica”, scrisse Orwell. “Non serve a molto pubblicarlo solo per i rifugiati all’estero”. Nella seconda lettera di Gorachek a Orwell, l’editore suggerì di stampare la traduzione in forma di libro e di distribuirla gratuitamente ai lettori russi dietro la Cortina di ferro. Possev ha pubblicato il romanzo in forma di libro nel 1950. Fortunatamente, questa edizione e le successive del 1967, 1971 e 1978 non furono sequestrate dalle autorità e molte copie riuscirono a entrare in Unione sovietica.

1984 di George Orwell diventa una serie | Wired Italia

Tuttavia – sebbene Orwell non ne sia mai venuto a conoscenza – su un aspetto gli editori della Possev non si dimostrarono affatto attendibili: censurarono il libro nei passaggi dove Orwell attaccava la religione. Arlen Blyum, un esperto russo di censura, ha trovato nell’archivio dell’Unione degli scrittori sovietici un documento non firmato datato 1946 e intitolato “Informazioni sul libro di George Orwell”, con il solito timbro “da conservare a tempo indeterminato”. Nel febbraio 1947 Literaturnaya gazeta, famigerato soppressore di tutto ciò che era vivo in letteratura, riportava un articolo di un certo Vl. Rubin, “La libertà della menzogna e della calunnia”, in cui attaccava “lo sporco inglese Orwell”. Fu più o meno nello stesso periodo in cui Possev iniziò a discutere con la vedova dello scrittore, Sonia, a proposito della traduzione di “1984”. Fu completata cinque anni dopo a opera di due traduttori, entrambi nascosti dietro pseudonimi: “V. Andreev” e “N. Vitov”. Il Cremlino diventa nervoso. Il Dipartimento ideologico del Comitato centrale del Pcus decise nel 1959 di pubblicare in russo una “edizione speciale” di “1984” solo per i governanti comunisti, “il partito interno”, per usare il termine di Orwell. Era diretto da Mikhail Suslov. Alto, il volto bianco, lo sguardo un po’ miope e un po’ ascetico che non tradiva mai emozioni in nessuna delle pubbliche esibizioni che lo avevano visto protagonista, Suslov era il matematico della dottrina, il potente capo della sezione ideologica del Partito, il guardiano della purezza del socialismo sovietico e l’ex direttore della Pravda sotto Stalin che sopravvisse 35 anni al potere, fino a Breznev. Lo stesso Suslov che comunicò a Vasilij Grossman che il romanzo “Vita e destino” non sarebbe mai stato pubblicato: “Il suo libro corre il rischio di non vedere la luce prima di due o trecento anni”. E ancora: “Perché mai alle bombe atomiche dei nostri nemici dovremmo aggiungere il suo libro?”. Poi quelle parole: “Il tuo libro parla positivamente di religione, di Dio, del cattolicesimo”. La casa editrice Inostrannaja literatura (Letteratura straniera), fondata da Stalin il 4 maggio 1946, aveva un compito speciale: far conoscere a un numero limitato di funzionari di alto rango le opinioni anti-sovietiche. Le “edizioni speciali” erano per lo più opuscoli politici, che venivano pubblicati all’estero e tradotti in russo. Di solito venivano stampate tra le 100 e le 200 copie di “edizioni speciali” e distribuite in completa segretezza. In primo luogo, per evitare di utilizzare il titolo del libro gli veniva assegnato un numero: “1984”, per esempio, era “21/5058”. C’erano mille nomi a cui consegnarlo: membri del Politburo, funzionari ideologici, militari. Quindi i libri venivano portati in giro da corrieri speciali e, una volta letti, i volumi sarebbero dovuti finire nei cosiddetti “spetskhran”, speciali sezioni di archiviazione nelle biblioteche. Non tutti però li restituivano. Ad esempio, Mikhail Gorbaciov ha annunciato pubblicamente nel 2011 che aveva nella sua biblioteca di casa 300 libri proibiti e mai dati indietro. Intanto “1984” passava di mano in mano in Unione sovietica. Le copie venivano fotografate, pagina su pagina, riscritte e riprodotte con l’aiuto della carta carbone. Ogni lettore aveva il diritto di tenerlo per ventiquattr’ore.

Il dissidente Julius Telesin era il “principe dei samizdat”, si dedicava con passione alla dattilografia e alla distribuzione di libri proibiti. I funzionari della dogana confiscavano le copie ai turisti. Bibliotecari e librerie avevano istruzioni di tenerle lontano dai loro scaffali. Sia “1984” sia la “Fattoria degli animali” apparvero per la prima volta pubblicati ufficialmente in russo nel 1988. Le autorità, tuttavia, avevano ancora paura di Orwell, così decisero di farlo uscire non a Mosca o a Leningrado, ma in Lettonia e in Moldavia. Kirill Kovaldzhi, poeta ed editore moscovita che ha letto “La fattoria degli animali” negli anni Settanta, “quando poteva anche portare al Gulag”, osserva: “Il libro ha avuto un grande significato per la Russia, ha aiutato a comprendere gli errori fondamentali dell’applicazione del marxismo in questo paese, senza contare che la formula della favola satirica fa parte della nostra letteratura”. Ai tempi di Orwell, l’indice di gradimento di Stalin in occidente era spinto dai cheerleader di influenza internazionale come Walter Duranty del New York Times, George Bernard Shaw, Beatrice e Sidney Webb. Anni di grande penuria economica, ma l’inglese Shaw viaggiò in Russia su un treno pieno di ogni ben di Dio. In casa del vate degli scrittori sovietici Maxim Gorkij, Romain Rolland incontra Jagoda, il capo della polizia segreta e commissario agli Interni, definito “l’incarnazione della mitezza… suscita simpatia…”. E Lion Feuchtwanger scrive che il futuro si presenta ai giovani sovietici “come un viottolo ben tracciato e ben curato in mezzo a un piacevole paesaggio”. Negli anni terribili dei processi farsa, del gulag, delle eliminazioni degli avversari politici in massa, i coniugi Webb vedono “carceri libere da ogni forma di atrocità fisica come non lo è nessun’altra prigione del mondo”. Stalin era già diventato uno dei più vili assassini di massa della storia ma Duranty con la sua smidollata copertura dell’Unione sovietica sulla stampa americana fece credere a molti occidentali che tutto funzionava, nella fattoria degli animali. Ancora si aspetta che gli tolgano il Premio Pulitzer. Per, magari, darlo a Orwell.

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