Russia: dal golpe alla trattativa, Putin sull’orlo del baratro Cronaca di Daniele Raineri
Testata: La Repubblica Data: 25 giugno 2023 Pagina: 2 Autore: Daniele Raineri Titolo: «Dal golpe alla trattativa Putin sull’orlo del baratro»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/06/2023, a pag. 2, la cronaca di Daniele Raineri dal titolo "Dal golpe alla trattativa Putin sull’orlo del baratro".
Daniele Raineri
Evgeny Prigozhin
Nel giro di ventiquattr’ore il gruppo di mercenari della Wagner esegue una prova di forza straordinaria, occupa in poche ore due città da un milione di abitanti ciascuna nella Russia meridionale, sfida l’esercito russo, si muove per dieci ore in autostrada senza quasi incontrare resistenza fino alla regione di Mosca, chiede la testa dei suoi nemici politici – il ministro della Difesa Sergei Shoigu e il capo di Stato Maggiore Valery Gerasimov – e ferisce per sempre il sistema di potere del presidente Vladimir Putin. Il capo del gruppo, Evgenij Prigozhin, con la sua testa liscia e il sorriso storto, alle otto di sera ferma i suoi uomini a duecento chilometri da Mosca come per un gesto di cortesia – «vogliamo evitare di versare sangue russo», dice e intende: il vostro – e lo fa grazie a un accordo con il presidente, che soltanto al mattino lo aveva definito «traditore da punire» e «pugnalatore alle spalle». A fare da mediatore c’è il presidente bielorusso Lukashenko, alleato o per meglio dire vassallo della Russia. Al tramonto Prigozhin passa da rinnegato a nuovo uomo forte del Paese, capace di fare pubblicamente quello che nessuno aveva mai fatto in vent’anni di storia russa: condizionarePutin. Due ore dopo però Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino, ribalta tutto: Prigozhin andrà in esilio in Bielorussia e le accuse di rivolta armata saranno lasciate cadere, i suoi uomini non saranno puniti e quelli che non hanno partecipato alla marcia su Mosca potranno arruolarsi nell’esercito. Non ci sarà alcun cambio alla Difesa, quindi Shoigu e Gerasimov – che nel frattempo sono scomparsi e non fanno dichiarazioni – restano al loro posto. Per il gruppo Wagner è la fine, almeno nella forma che abbiamo imparato a conoscere. Per Prigozhin il futuro è incerto, le squadre del Cremlino sono andate persino a Salisbury vicino a Londra a punire con il veleno un rinnegato, possono fare di peggio nella contigua Bielorussia. I suoi mercenari, induriti da nove mesi di combattimenti strada per strada a Bakhmut e altrove, si erano fermati a due ore di strada dalle porte di Mosca, e non erano arrivati allo scontro diretto con i reparti moscoviti dell’Fsb, i servizi segreti, che la guerra non l’hanno mai vista, e con la Rosgvardia, le due unità che devono proteggere il Cremlino. In teoria il primo giorno di luglio i combattenti avrebbero cessato di essere gruppo Wagner e sarebbero stati sciolti e inquadrati formalmente nell’esercito, secondo un piano del ministro Shoigu. Si erano ribellati per evitare il dissolvimento, ma se Peskov dice il vero – ed è un grosso se – la ribellione di ieri non li ha salvati. Putin ristabilisce l’ordine perché non può apparire debole, è una questione di sopravvivenza, se cede un poco alla Wagner il suo intero sistema crolla e viene travolto. Quanto davvero possa ancora reggere questa finzione di controllo assoluto non è dato sapere. La rivolta del gruppo comincia venerdì mattina con un video di Prigozhin dal quale non è più possibile fare marcia indietro. Il capo dei mercenari spiega che le ragioni dell’invasione in Ucraina sono tutte false e incolpa i generali – «quelle due puttane» di Shoigu e Gerasimov – che l’avrebbero voluta per lucrarci sopra e coprirsi di gloria a spese di ragazzini russi mandati a morire. In questa arringa di accusa Putin non c’è, come se non avesse responsabilità, perché Prigozhin ancora spera che il presidente russo gli offra la testa dei generali. Alla fine del pomeriggio il capo della Wagner annuncia che elicotteri russi hanno bombardato un campo del gruppo Wagner e pubblica un video che mostra gli effetti dei razzi: qualche falò, alberi scheggiati, un braccio mozzato. Il video è quasi certamente farlocco – nello stile più classico della propaganda – ma la reazione di Prigozhin è autentica: ordina a venticinquemila combattenti di abbandonare le retrovie di Bakhmut, nel Donbass, e di marciare su Rostov, la città della Russia meridionale da dove il ministro Shoigu in teorie dirige i raid punitivi contro il gruppo Wagner. Poco dopo l’alba i combattenti di Prigozhin scivolano dentro Rostov senza sparare un colpo e occupano gli edifici strategici, il comando della polizia locale e della polizia regionale, quello dell’intelligence e soprattutto il quartier generale del Distretto militare Sud – da dove i generali dirigono la guerra nel Donbass. Uomini a volto coperto piazzano blindati e mine agli incroci delle strade, sembra l’occupazione della Crimea da parte dei putinisti nel 2014 – ma questa volta tocca ai putinisti il ruolo delle vittime colte di sorpresa. L’operazione ha l’aria di essere stata preparata con molto anticipo. Un ufficiale delgruppo Wagner spiega sul canale Telegram di Gulagu, una testata indipendente russa, che ci sono voluti due mesi: mentre a maggio e aprile Prigozhin mentiva e pubblicava video per accusare Shoigu e Gerasimov di non dargli abbastanza munizioni e creava il mito del tradimento dei generali a spese dei combattenti, «la prima e la settima squadra d’assalto della Wagner facevano incetta di missili portatili terra- aria e di missili Javelins controcarro catturati agli ucraini». La presa di Rostov è una perdita irrimediabile per il ministero della Difesa russo, che non ha le risorse e la voglia per una battaglia fratricida nelle strade di una città russaper snidare migliaia di veterani – a tre ore soltanto di macchina dal fronte, dove i soldati ucraini spingono con la controffensiva. Che tempismo. Anche su questo si basa l’azzardo di Prigozhin, che è arrivato così in alto perché è un calcolatore: Shoigu non può gestire due fronti, uno esterno e uno interno. Da Rostov la Wagner si mette in marcia in direzione di Mosca con un convoglio di veicoli blindati e camion che trasportano carri armati. Supera Voronezh, seicento chilometri più a nord e prosegue verso la capitale. Si avvicinano elicotteri e aerei, per intercettare le comunicazioni e bombardare i mezzi, gli ammutinati rispondono con i missili terra aria – ne abbattono quattro lungo la via. Le forze armate restano immobili per tutto il giorno. Se voi foste l’infinita massa dei soldati russi piazzati sui mille chilometri di fronte ucraino in attesa di combattere per un pezzo di Donbass contro le truppe ucraine e i loro veicoli donati dai Paesi Nato, fareste il tifo per il presidente Vladimir Putin che vuole continuare a tutti i costi la guerra oppure per il ribelle Evgenij Prigozhin che vuole far saltare la gerarchia? Questa è la domanda che ieri era sospesa sull’esercito russo e che avrebbe deciso il finale dell’operazione lanciata dal capo del gruppo Wagner. Prigozhin passa moltotempo sul fronte, conosce l’umore nelle trincee. Tutti seguono l’avvicinarsi del convoglio a Mosca e poi il dietrofront, frutto di trattative furiose al telefono fra Prigozhin, il Cremlino e Lukashenko. Nel sud intanto parte un contro-convoglio di volontari ceceni di Ramzan Kadyrov, fedelissimo di Putin, per provare a riprendere Rostov. Ma i mezzi restano imbottigliati nel traffico, i ceceni non ottengono nulla e alla sera sono gli stessi uomini della Wagner ad abbandonare la città, fra grandi pacche sulle spalle e gesti di vittoria, con l’impressione di avere vinto. Poco dopo arriva il gelo delle dichiarazioni di Peskov.