Intervista al figlio dell'ultimo Scià Dall'america una speranza per la Persia
Testata: La Stampa Data: 14 maggio 2003 Pagina: 4 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «Anche per l’Iran è l’ora del cambiamento»
Riportiamo l'intervista di Fiamma Nirenstein a Reza Pahlavi pubblicata su La Stampa mercoledì 14 maggio 2003. IN un pallido hotel della periferia di Washington ci aspetta, alto e sorridente, Reza Pahlavi dell’Iran. Così ci ha suggerito di chiamarlo un suo segretario: «Sua Altezza» non lo è, «Principe» non vuole sentirlo dire, eppure è figlio dell’ultimo Scià di quel grande Paese non arabo del Medio Oriente che è stato un impero per più di un millennio. Ha un aspetto piuttosto occidentale questo quarantatreenne con la cravatta rossa, assertivo e tecnico, dal linguaggio tutto derivato dalla laurea in Scienze politiche: potrebbe divenire, se non il leader, almeno il simbolo unitario di una rivolta iraniana prossima ventura. Infatti, dopo l’11 settembre le sfide al regime si sono moltiplicate. Un popolo di giovani sceso in piazza con le candele in mano sfidò gli ayatollah cantando «Noi amiamo l’America», il Grande Satana; i moti del novembre del 2001 stupirono tutto il mondo, quando la vittoria della squadra di calcio iraniana, 3 a 0 contro gli Emirati, fornì l’occasione per un’esplosione filo-occidentale. Da allora il figlio dello Scià, che fu detronizzato dalla rivoluzione khomeinista nel 1979, ha inaugurato una nuova linea d’intervento, laica e democratica. Aveva 17 anni quando la rivoluzione spazzò via i Pahlavi; ne aveva 14 quando il padre si ammalò di cancro e quindi insieme alla madre, Farah Diba, prese a dargli un corso accelerato verso la corona portandolo con sé in tutti i viaggi diplomatici e facendolo partecipare alle più difficili riunioni. Per un degno curriculum militare lo spedì poi negli Stati Uniti a imparare ad essere pilota di guerra. Adesso da due anni è convinto di poter guidare una rivoluzione già pronta, solo che gli Usa e l’Europa non fermino il popolo iraniano; ce lo racconta, forse non inconsciamente seduto su una poltrona molto più alta della nostra: mentre scriviamo, siamo semiaffondati, semigenuflessi.
Reza Palhavi, dopo la guerra dell’Iraq sente più vicino un cambio di regime nel suo Paese?
«Certo, sia la liberazione dell’Afghanistan dai taleban sia quella dell’Iraq dalla tirannia di Saddam, e in generale il discorso del 24 giugno del presidente Bush, la guerra che gli alleati hanno dichiarato al terrorismo di cui il regime degli ayatollah è uno dei maggiori sponsor, fanno sperare in un futuro migliore per il mio Paese... Ma più di ogni altra cosa, e di gran lunga, è il mio popolo stesso che promette una grande svolta con il suo desiderio di democrazia e il suo coraggio. L’assenteismo alle ultime elezioni, le dimostrazioni degli studenti, i continui messaggi che ricevo sono la migliore promessa di cambiamento...».
Di quale tipo di messaggi sta parlando?
«Non posso rivelare tutto, ma sono in contatto, oltre che con il movimento degli studenti, con i sindacati dei lavoratori, con le donne, coi rappresentanti della tecnologia iraniana, anche con molti uomini della milizia, con molti esponenti del potere, persino con alcuni importanti membri della piramide religiosa...».
Vuole dire che il clero sciita non ha più fiducia nel regime che ha costruito?
«Proprio così: molti credenti, molti importanti uomini di fede hanno compreso che la sovrapposizione tra potere e religione è di fatto un tradimento della religione stessa, un elemento di corruzione; che la visione piramidale di un gruppo di ayatollah che si sentono incaricati da Dio di dominare crudelmente il popolo, di dirgli cosa leggere, cosa dire, come vestirsi pena la morte o la prigione, non ha niente a che fare con la vera fede. Questa sovrapposizione, figurarsi, è pensabile, secondo la religione stessa, solo quando apparirà il dodicesimo Imam. E del resto il fallimento morale di questo governo si misura sulle oltre 600 mila persone nelle carceri, sulla tortura, sulla chiusura di tutte le testate giornalistiche anche appena vagamente dissidenti. Sono a conoscenza di orrori indicibili: mi dicono che le ragazze dissenzienti vengono violate in carcere perché altrimenti la verginità consentirebbe loro di andare in paradiso».
Pure l’Iran è pensato nel mondo come un Paese con due anime di cui una è rappresentata dal volto benevolo di Khatami. E a Ginevra proprio in questi giorni gli Stati Uniti intrattengono colloqui amichevoli col governo iraniano.
«Sì, il mondo intero ha una politica incerta verso il mio Paese, e invece la caduta dell’attuale regime non solo libererebbe le forze di una grande nazione, di uno Stato naturale che ha i suoi confini nella storia antica, e non in linee artificiali, pieno di risorse economiche e umane; ma libererebbe il mondo da un rischio atomico imminente e dalla maggiore centrale di terrorismo esistente, poiché da là partono finanziamenti per gli Hezbollah, per Al Qaeda e altri. Khatami fu sì scelto dal popolo, ma su designazione del potere costituito che per legge è l’unico a scegliere i candidati. Il popolo lo votò in massa perché egli appariva il meno compromesso col regime. Ma poi, che è accaduto? Sotto di lui si sono avute le più dure repressioni, la fuga dei cervelli, la crescita esponenziale del nucleare e del terrorismo... E anche, come si vede, del dissenso».
Reza Pahlavi, lei si vede come il futuro sovrano?
«Io mi vedo come il catalizzatore di una evoluzione (non chiamiamola rivoluzione) laica e democratica, in cui eventualmente, e solo con una scelta democratica, il popolo potrebbe avere un giorno bisogno di me, o meglio di quello che la dinastia rappresenta».
Non dimentichiamo che suo padre ha avuto critiche molto radicali dai suoi oppositori, che l’opinione pubblica di tutto il mondo all’inizio accolse con gioia la rivoluzione.
«Che vuol dire? Anche la rivoluzione sovietica a suo tempo fu accolta con gioia. Quanto a mio padre, la cui memoria amo e di cui vado fiero, pure oggi i tempi sono assai diversi, l’idea dello Stato e della monarchia è cambiata radicalmente, si è arricchita...».
Vorrebbe essere un sovrano all’olandese?
«I modelli sono molteplici: l’Olanda, il Belgio, la Spagna, l’Inghilterra. Ma io non ho oggi in mente la monarchia, le ripeto che io penso soltanto alla democratizzazione e alla laicizzazione del Paese».
Qual è la sua strategia?
«Il punto di arrivo è un referendum che scelga la libertà: su questo tutte le componenti dell’opposizione, che non sono poche e con cui io sono in quotidiano contatto, sono d’accordo».
Le pare facile? Vede nel prossimo sciopero del 9 luglio una grande occasione?
«Non è facile, ma è del tutto realistico, specie se il mondo accetterà di aiutare il mio popolo. La mia strategia consiste in una linea chiara: la disobbedienza civile, possibilmente priva di violenza, compiuta attraverso la mobilitazione di tutte le componenti sociali. Gli studenti, i lavoratori, le donne dovrebbero impegnarsi in interruzioni del lavoro, marce pacifiche, cercando di non ingaggiare mai scontri con le forze di polizia e con le varie milizie. Anzi, stiamo proprio in questo periodo cercando di impegnarci in una discussione con chi ne fa parte, dobbiamo cercare di convincerle, far capire che non siamo contro di loro, ma contro il regime».
E nel frattempo lei come prepara l’avvento di questa strategia di disobbedienza civile?
«Lavoro ormai da anni a diffondere messaggi, sia per scritto attraverso Internet, sia con la tv satellitare ormai in onda continuamente da Los Angeles. Lavoro per tenere contatti col resto dell’opposizione all’estero; e un terzo fronte è quello dei rapporti con le amministrazioni americana ed europee, degli incontri e dei contatti in cui chiedo alcune cose precise: cessate i commerci col regime, non trattate con i tiranni, date forza all’opposizione consentendo una migliore esposizione, più finanziamenti, più mezzi elettronici agli studenti in Iran, che mancano di tutto».
Reza Pahlavi, il regime degli ayatollah non è così universalmente condannato: le possibilità di un rapporto con l’Iran per quello che è sono prese in considerazione da parecchi governi; in questi giorni gli Usa trattano a Ginevra coi rappresentanti di Teheran. Le sembra realistica la sua prospettiva di rivoluzione?
«Penso a Milosevic, a Ceausescu, a Saddam, alla caduta dell’impero sovietico... Quando i tiranni cadono, e l’Iran è veramente una terribile tirannia, pare sempre un miracolo; ma la volontà interna e internazionale quando si incontrano riescono a compiere questo miracolo, a sferrare il colpo decisivo».
Che vita conduce negli Stati Uniti?
«Il lavoro si è fatto molto più intenso negli ultimi tre anni. Cerco di passare più tempo possibile con la mia famiglia, ma ormai Jasmine - mia moglie, che fa l’avvocato - Nur, di 11 anni, e Iman, di 9, mi vedono molto meno di quello che io vorrei».
E sua madre, Farah Diba?
«Vado spesso a trovarla a Parigi, e lei viene da noi due, tre volte l’anno. Siamo molto legati».
Come famiglia, avete avuto una vita non facile. Qual è l’ultimo ricordo di suo padre?
«Sa, negli ultimi anni era molto malato, e dopo la rivoluzione ricordo che insieme, anche se io ero molto giovane, aspettavamo, tutta la famiglia, le telefonate che contavano i morti, gli arrestati, i torturati. Ogni giorno mia madre, lui, i miei fratelli, ricevevamo grandi colpi al cuore. La sofferenza era grande. Ma la dignità e l’orgoglio di mio padre ci hanno sempre tenuti vivi. Anche nel ricordo. Mi sembra mille anni fa, quando lo sentivo chiedere alle guardie, la mattina presto, mentre insieme uscivamo lui per andare in ufficio e io per andare a scuola, notizie sul raccolto, sulla campagna, sul tempo... Io lo ricordo così, molto innamorato della Persia, della modernizzazione, dell’emancipazione femminile. Sì, so bene che ha avuto tante critiche. La storia deciderà su di lui, io ne sono fiero. E’ morto solo due mesi prima della guerra con l’Iraq, e sono contento che almeno non abbia dovuto assistere da lontano anche a quella tragedia».
Reza Pahlavi, lei pensa che sarà re?
«Le ripeto che io mi vedo come un catalizzatore: l’Iran ha le risorse umane e politiche, ha la storia per un grande futuro prescelto e non imposto. Spero che il mondo non ci abbandoni». IL FIGLIO DELL’ULTIMO SCIA’: IL MIO POPOLO E’ PRONTO, IL MONDO NON CI ABBANDONI