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La Stampa Rassegna Stampa
14.05.2003 Arafat-Igor Man
La triste fine di un amore

Testata: La Stampa
Data: 14 maggio 2003
Pagina: 1
Autore: Igor Man
Titolo: «La grande illusione»
Il destino dei dittatori, quando giunge la loro fine, è sempre uguale. I laudatores improvvisamente tacciono, il nome del capo caduto scompare dai loro taccuini, nei loro articoli non se ne fa più cenno.
E'la sorte toccata ad Arafat, abbandonato da uno dei suoi cantori più eccellenti: Igor Man.
Da quando tutti i poteri che contano (tranne qualche eccezione di poco conto) gli hanno detto fatti in là, Igor Man ha subito capito da che parte tirava il vento. Niente più sperticate lodi al "vecchio fedayn", niente più dichiarazioni di stima e affetto al "buon Abu Ammar", niente più neanche un accenno al "prigioniero della Mukata", insomma niente di niente. Quasi quasi il vechio rais comincia persino a farci un po' pena se pensiamo a come lo tratta il nostro Igor. E' sempre triste il momento in cui un amore finisce. Ma si sa, Igor Man è fatto così, era un evidente matrimonio di convenienza, e visto che Arafat non conta più nulla, stop, fine dell'innamoramento.
Imperversa sempre l'Igor Man "grande esperto di medio oriente". Dopo non averne imbroccata nemmeno una sulla guerra all'Iraq, non aveva neanche previsto la caduta del suo beniamino palestinese. Dopo qualche settimana di silenzio doveroso per uno che si era visto smetire in tutte le sue previsioni, ritorna a pontificare sulla Stampa del 14.5. E avendo sbagliato le previsioni politiche adesso si butta sulle interpretazioni economiche. Naturalmente è sempre l'America la grande accusata. Le mire di Bush questa volta sono di fare del mediterrano un "cortile di casa", come il becero ha già fatto in Sud America. Poi farfuglia qualche frase sconnessa dalle quali non si capisce bene come si debba intendere questa nuova realtà in Europa e nei paesi arabi. D'accordo, il nostro non ha mai avuto il dono della chiarezza, ma qui esagera. Per fortuna che lo aiuta il suo prezzemolo di sempre, la questione israelo-palestinese, sulla quale viaggia chiaro e spedito condendo qualsiasi argomento gli capiti a tiro. Se non si risolve la "piaga palestinese, se si incancrenisce sempre di più" sembra al nostro che nulla possa essere risolto. E anche qui nessuna citazione del povero Arafat, ma molte dell'America, che avrebbe sbagliato i conti pensando che bastava cacciare Saddam per sconfiggere il terrorismo. Naturalmente nessuno in America ha mai sostenuto una tesi così ingenua. Ma Igor Man la propina ai lettori della Stampa, tanto che ci chiediamo come in un giornale così impostante non ci sia qualcuno che dia un'occhiata ai pezzi del nostro prima di pubblicarli. Ma non è finita, tutto l'articolo, pubblicato perdipiù come editoriale in prima pagina, è un insieme di sciocchezze. "E' chiaro", scrive Igor Man, "che la strage di Riad è una smentita a ogni facile ottimismo". Facile ottimismo di chi, se è lecito ? Nessuno, ma proprio nessuno in occidente ha mai pensato nemmeno per un minuto che caduto Saddam ci fosse da essere ottimisti. Che Igor Man abbia scoperto il terrorismo globale solo ora che tutto il mondo ha capito che la questione israelo-palestinese ne è soltanto un aspetto e che la storia è molto più vasta di quanto sostenevano quelli che in quel conflitto vedevano il centro, il fulcro e la motivazione del terrorismo mondiale ?
Non manca poi nelle squinternate analisi del nostro la difesa di quanti " prima della guerra temevano come prima conseguenza della stessa una impennata del terrorismo". Come dire, la guerra era meglio non farla, con Saddam al potere saremmo stati più tranquilli.
Povero Igor Man, non chiude nemmeno più il suo articolo con la citazione del Corano, com'era sua abitudine. Che sia passato di moda anche quello ?

LA carneficina di Riad - perché di questo si tratta - è la risposta dell’islám radicale al Grande Progetto di Bush: la creazione, entro dieci anni, di una zona di libero scambio Usa/Medio Oriente, gemella dell’altra, già operativa, fra gli Stati Uniti e l’America Centrale, definita quest’ultima «il cortile di casa». La strategia di Bush punta verosimilmente a fare del Mediterraneo, portone d’ingresso al Levante prossimo e lontano, un nuovo «cortile di casa». Codesta prospettiva può relativamente allarmare l’Europa, poiché una «collaborazione intelligente, da pari a pari», conviene sia alla vecchia (Europa) che a quella nuova, sia a Bush (è il discorso che fanno i tedeschi e che, verosimilmente, trova d’accordo gli italiani - per la Franca si tratta di attendere). Ma se per l’Europa il progetto di Bush potrebbe essere un terreno primariamente politico sul quale sarà possibile, anche se non facile, tracciare interessanti percorsi di sviluppo, lo stesso progetto per i paesi del petrolio e i loro «fratelli» viene visto in termini diremo etico-commerciali. Insomma: sul petrolio ci si può intendere, in Palestina bisogna applicare subito la famosa road map. Vale a dire il piano di pace che la Iperpotenza intende dettare, giusta la sua visione americana del mondo post 11 settembre: pragmatica fino a sfiorare la rozzezza. Come ha ben scritto Thomas L. Friedman, nel sottosuolo fermenta il magma terribile dello scontento del popolo arabo che ha della Palestina una visione assolutamente etica anziché geopolitica. Più la piaga palestinese si incancrenisce, più precario si fa il potere dei vari sovrani e raîss. Essi, infatti, non possono non assecondare l’America Number 1, che contro tutte le previsioni ha spazzato via dalla cronaca (la Storia dovrà attendere) il Tiranno, celebrando in Mesopotamia una guerra-lampo inimmaginabile.

Che poi, a vincere sia stata l’intelligence piuttosto che il carro armato o il cacciabombardiere è del tutto secondario: conta il risultato. Ma attenzione, il risultato, almeno per ora, è la facile vittoria militare, il rapido abbattimento di Saddam Hussein, della sua miserabile corte di adulatori, ruffiani afflitti da vampirismo psicologico.

Un risultato da 6+: la sconfitta di Saddam non è infatti la sconfitta del terrorismo. Se l’equazione americana fosse stata esatta, la caduta di Saddam avrebbe demolito il «secondo pilastro» del terrorismo islamista, così come, nell’ottica americana, la sparizione di Osama bin Laden ha fatto del terrorismo islamista una classica anatra zoppa. La carneficina di Riad smentisce brutalmente chi aveva creduto (o mostrato di credere) che con la caduta di Saddam il terrorismo sarebbe crollato contestualmente. E’ chiaro come il sole di mezzanotte, invece, che la strage di Riad è una tragica smentita a ogni facile ottimismo. Conferma, intanto, il pessimismo di chi prima della guerra scriveva di temere come prima conseguenza della stessa una impennata del terrorismo, proprio di quello suicida e, inoltre, complica la miscela d’odio e fanatismo iniettata dal Principe del Terrore, Osama, nelle avide vene degli islamisti radicali. Con la strage di Riad (sullo sfondo incombe un’altra strage, ma la Cecenia ha soltanto qualche tratto somatico-religioso in comune con i terribili epigoni di Osama bin Laden) il terrorismo suicida torna in campo. Rivelandoci, in fatto, che non basterà, forse, a placarne la furia la composizione della tragedia israelo-palestinese. Il giuoco s’è fatto invero pesante. E più insidioso: da uno studio apparso su Science, risulta che il cosiddetto kamikaze non è né povero né analfabeta (se non in minima percentuale). Non sono, i terroristi suicidi, né dei disperati né degli psicopatici. Somigliano spaventosamente agli agiati borghesi che distrussero le Due Torri, dando una tragica svolta alla Storia dell’Occidente. Dopo lo stupro di Manhattan: «Nulla sarà più come prima», si disse. Infatti.
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