'Il terzo tempio', di A.B. Yehoshua Recensione di Wlodek Goldkorn
Testata: La Repubblica Data: 15 giugno 2023 Pagina: 37 Autore: Wlodek Goldkorn Titolo: «L’utopia per la pace di Yehoshua»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 15/06/2023, a pag.37 con il titolo “L’utopia per la pace di Yehoshua” la recensione di Wlodek Goldkorn.
Wlodek Goldkorn
A conclusione de Il terzo tempio, il testo che Abraham B. Yehoshua ha dato alle stampe in Israele pochissimi mesi prima della sua scomparsa, avvenuta un anno fa il 15 giugno 2022, e che ora Einaudi pubblica nella traduzione di Sarah Parenzo, il protagonista, un rabbino, va al mercato per comprare e portare a casa frutta e verdura. Quel finale, un bagno nella realtà quotidiana, arriva dopo quasi novanta pagine di dialoghi serrati dove i temi in sottofondo sono il Messia, il messianesimo, l’identità ebraica, le regole, i precetti e il loro rapporto con le cose umane: amore, eros, gelosia, voglia di felicità. Ecco, la scena conclusiva è un omaggio dell’autore a un grande, forse il più importante poeta israeliano del Novecento, Yehuda Amichai, che in una bellissima poesia racconta la sua visione della redenzione a Gerusalemme: un uomo che porta a casa la verdura appena acquistata al mercato. Il tempo messianico, il Tempo dopo il Tempo, è la normalità. Yehoshua ha voluto definire Il terzo tempio come un «breve romanzo (“novella”, diceva) in forma di dialogo», ma sarebbe più giusto dire che il testo è una specie di pièce teatrale che si legge come un romanzo, o forse un conte philosophique , un racconto di stampo prettamente illuministico pieno di arguta ironia. Con ogni probabilità si tratta anche di una specie di resa dei conti (dire testamento susciterebbe l’ira di Yehoshua), o di un manifesto, scritto sapendo di avere i mesi contati, scritto da un gigante della letteratura, un intellettuale inquieto sempre pronto ad ascoltare le storie e le narrazioni degli altri perché spinto dall’arte e dell’etica della curiosità.
Abraham B. Yehoshua
E in questo libro, fra i racconti e i rimandi ci sono pure riferimenti a Dante Alighieri e a Shmuel Yosef Agnon, Nobel 1966 e padre fondatore della prosa ebraica moderna, nonché a Manzoni e ad altri che non elencheremo. Si è detto, una resa dei conti. Con chi? Con tutti coloro che hanno cercato e cercano di trasformare una società tendenzialmente laica e con lo sguardo verso il futuro come quella israeliana, in un inferno di rivendicazioni identitarie, di chiusure settarie, volte al passato e al lato «irrazionale» (aggettivo che ripeteva con sdegno e perplessità) degli esseri umani. La trama è la seguente. Siamo nella sede del Rabbinato Centrale a Tel Aviv (un’istituzione che gestisce gran parte della vita civile: dai matrimoni ai funerali), nel Dipartimento delle agunòt . Agunòt è il plurale diagunà ma è anche il titolo del primo romanzo di Agnon, appunto. Ma soprattutto, agunà è una donna che per una serie di precetti e interpretazioni rabbiniche non può convolare a nozze, oppure non può sposare certe categorie di uomini. Non entreremo nei dettagli, che richiedono una certa preparazione nelle scritture e nelle tradizioni orali. Se non per dire che secondo le leggi religioseuna donna convertita all’ebraismo non può sposare un uomo che discende dalla casta dei sacerdoti. Ecco quindi che nell’ufficio del rabbino Shoshani sta per entrare una donna, una convertita che viene da Parigi e che ha da raccontare una vicenda inquietante. Prima di proseguire, una spiegazione necessaria: il cognome del rabbino allude a Monsieur Chouchani, un filosofo ebreo leggendario e uomo di fede, dalla biografia avvolta nel mistero, scomparso in Uruguay nel 1968 e di cui si parla moltissimo negli ultimi anni, specie fra coloro che dalla condizione laica tornano all’ebraismo tradizionale, senza tuttavia rinunciare al sapere mondano acquisito. La donna che entra nello studio del rabbino, Esther Azoulay, ha 38 anni, è figlia di un ebreo natoin Algeria e di una madre cristiana, convertitasi all’ebraismo. Lei vuole denunciare un rabbino, Modiano, di quelli che «non si occupano di amuleti, di tombe dei santi o delle illusioni di Cabalà»: un intellettuale che frequentava la Sorbona e il cui fascino subiva il padre di Esther. La denuncia non verrà fatta per iscritto, ma Shoshani ha tutto da guadagnare da quel racconto. Compromettere Modiano favorirebbe la sua carriera, per una serie di giochi delle nomine a ruoli apicali nell’establishment religioso. Insomma si tratta di un classico intrigo di potere con l’ausilio della fede. Esther racconta quanto Modiano si sia occupato della sua educazione spirituale e religiosa da ragazzina e quanto sia rimasto affascinato dalla giovane. La dimensione erotica — seppur sublimata — della frequentazione è evidente. Poi però trovò sulla sua strada un ragazzo bello e intelligente, di nome David Mashiah. Mashiah in ebraico vuol dire il Messia. I due, studiando, si innamorano l’uno dell’altra («galeotto fu il libro») ma il perfido Modiano, ingelosito, trova modo per impedire ai due di sposarsi. Come? Semplice. Mashiah sarebbe un discendente della casta sacerdotale mentre Esther sarebbe una convertita, ergo: quel matrimonio non s’ha da fare. Ma Modiano ha sbagliato l’interpretazione dei precetti e così ha abusato della sua autorità. Le citazioni italiane non sono casuali. Il terzo tempio è anche il prosieguo ideale del precedente romanzo breve La figlia unica , ambientato in Italia e con protagonista una ragazza alle prese con la questione dell’identità, divisa fra quella ebraica del padre e quella cristiana del ramo materno e della conversione. Ma poi, cosa èIl terzo tempio? È quel tempio che vive nell’immaginazione degli ebrei — «senza però crederci veramente», scrive Yehoshua — che dovrebbe essere eretto a Gerusalemme dopo l’avvento del Messia, nel luogo che i musulmani chiamano al Haram al Sharif (Il nobile santuario) e gli ebrei Har ha-Bait (Monte del tempio) e dove sorge la moschea Al Aqsa. Il dramma è che oggi esistono movimenti che quel mito messianico vogliono trasformare in realtà. Esther propone invece al rabbino Shoshani di erigere il terzo tempio altrove, fuori dalle mura della Città, «un tempio che non interferisce né minaccia con la sua architettura nessun altro luogo santo». E pure questa è un’utopia, ma di pace e razionalità, direbbe l’autore.
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