Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 05/06/2023, a pag.1, l'analisi di Francesco Chiamulera dal titolo “La resistenza di Leopoli”.
Leopoli
Lo vedi quell’edificio sovietico cadente? Ma te lo immagini che bella che sarà questa città, quando saremo nell’Unione Europea? Riesci a immaginarlo…?”. Al terzo giorno di viaggio il refrain di Rosty diventa un rumore di fondo, un contrappunto a ogni cornicione, a ogni decoro ottocentesco, a ogni infilata di facciate composte e austere e intatte di Lviv, in italiano Leopoli. La sua città è un gioiello, dove qualsiasi angolo e prospettiva dice della bellezza grandiosa della Mitteleuropa, e lui lo sa. Ha vissuto e studiato e lavorato all’estero, in Germania e in Francia, parla bene quattro lingue, il confronto gli viene facile. Ha un ulteriore pregio, Leopoli. Non è come quelle città il cui nucleo storico è intatto, ma che si fanno scialbe e impersonali appena si esce dalla cerchia delle vie del centro. No, qui gli Asburgo si protendono fastosi e imperturbabili per chilometri e chilometri dalla piazza del mercato, fin nei sobborghi verdeggianti di Sofiyivka, di Pidzamche, di Zaliznychnyi. La quantità! Si resta accecati dalla quantità oltre che dallo sfoggio estroso e impudente: quell’angelo slanciato sulla cima del teatro, quei putti di marmo sopra il portone del palazzo, quelle ninfe di pietra che si rincorrono nel fregio… Ma che cosa avranno mai pensato, viene da chiedersi, gli abitanti dell’èra sovietica, quando giravano per questa città come fantasmi, come robot alienati, negli anni Settanta, e guardavano gli edifici, e comparavano la loro vita nelle communalke a quella dei precedenti abitanti, questo spettacolo alla verità ufficiale del regime, e cioè che il mondo di ieri borghese e capitalista era malvagio e affamatore, non come la dittatura del proletariato? Ci penso spesso anch’io, dice Rosty, mentre affrettiamo il passo alla volta del municipio. Rosty, diminutivo familiare, alla tedesca, del più altisonante Rostyslav. Nato nel 1990, Rosty, il 9 agosto, neanche un mese dopo la dichiarazione di sovranità della Repubblica socialista sovietica Ucraina: il primo vagito di indipendenza da Mosca, dopo settant’anni “in marcia verso il nulla”, com’era scritto su uno striscione in una manifestazione della dissidenza baltica del tempo. E’ lui, già piccolo imprenditore, fondatore della food bank Tarilka.org, ora responsabile delle risorse umane di una multinazionale, che, con la moglie Olesya Yaremchuk, scrittrice e giornalista, ha architettato tutto questo giro, perché la loro città si rivelasse e si mostrasse. Nel municipio, oltrepassate le tre bandiere della città di Leopoli, dell’Ucraina e dell’Europa che sorvegliano il piano, si va per incontrare il sindaco, Andrij Sadovyj, un signore che nell’apparenza bonaria e corpulenta potrebbe essere scambiato facilmente per un bel burgmeister democristiano tedesco o austriaco, ma che invece è il tenace leader di una città in guerra, il sindaco che resiste all’aggressione russa insieme alla sua popolazione di oltre 700 mila abitanti. Più i rifugiati interni, che lasciano le zone dell’est per venire qui, e che Sadovyj non chiama profughi ma “i miei nuovi concittadini”. L’europeismo nel senso di vera affiliazione alla Ue permea ogni conversazione. L’umore non è allegro, come potrebbe esserlo in mezzo alle bombe e agli allarmi antiaerei (ne è suonato uno alle 12, e ci siamo rifugiati in una specie di pub sotterraneo, il Kryivka, a tema patriottico-partigiano, dove entri con parola d’ordine, ovviamente Slava Ukraïni!, Heroiam Slava!, ti servono il borsch in una gavetta di latta e ti vendono fantastiche magliette col trattore ucraino che trascina il carroarmato russo), ma è, appunto, resistente. Il sense of humor non manca. “Se sono di destra o di sinistra? Domanda carina. Di base direi che sono uno stoico, mi piacciono le attività che danno risultati tangibili, ora direi che sono dell’ideologia della vittoria. Vittoria contro l’occupante plurisecolare, per noi la guerra mica è cominciata nel 2022, quella è solo l’invasione generale definitiva. Vittoria per riprendere i territori invasi, vittoria per poi ricostruire”. Riceve, Sadovyj, in una sala del municipio che per chiunque conosca un minimo la Felix Austria ha un dettaglio commovente: quattro bellissime stübe in maiolica disposte in ogni angolo, simili a quelle che vedi a Innsbruck, a Brunico o a Salisburgo, solo che siamo qui, lontani, in Galizia, sul fronte orientale dell’Europa. Oppure – questione di punti di vista – nel polmone occidentale dell’Ucraina, quello dove il sentimento patriottico più si è fatto sentire nei decenni, dove la carboneria antisovietica era più forte. Era di questa regione Oleksa Hirnyk, un signore che in una notte del 1978, per protestare contro la russificazione del suo paese portata avanti dai sovietici alla faccia dell’internazionalismo teorico e dell’amore tra i popoli socialisti predicato dal Cccp, si reca sulla collina del paesino di Kaniv, non lontano dalla tomba del poeta nazionale ucraino Taras Shevchenko; sparge per tutto il colle volantini antirussi, con frasi indipendentiste e citazioni del poeta; si versa addosso quattro litri di benzina; e si dà fuoco. “Siamo stoici”, prosegue il sindaco Sadovyj. “Prima dell’invasione russa abbiamo preparato la città alla guerra, sapendo che sarebbe arrivata. Abbiamo fatto accordi con i piccoli proprietari privati di generatori, per compensarli, e così via. Nel primo anno di guerra abbiamo avuto trecento giorni di blackout, con lunghi momenti in cui l’elettricità andava e tornava”. Ora, grazie ai sistemi di difesa antiaerea che l’Occidente fornisce alla resistenza ucraina, le interruzioni sono molto più rare. Ma perché Leopoli viene quasi sempre risparmiata dalle bombe russe? “Be’, qui si sono rilocate decine di ambasciate che erano a Kyiv. Colpirci non è così strategico. Il che ci dà una responsabilità. Abbiamo un dovere speciale: ispirare. E un ruolo psicologico speciale: dare sollievo”. Accende uno schermo e mostra i progetti degli ospedali già completati e quelli in costruzione, subito fuori città, dove i soldati feriti vengono curati. “Andate a vedere la nostra clinica Unbroken. Facciamo oltre cento protesi al mese. Dite che vi mando io. E mettetevi questo, è il braccialetto della clinica, l’ho dato anche ad Anne Applebaum e a Radek Sirkorski quando sono venuti qui qualche settimana fa”. Si va dunque al centro di riabilitazione di Leopoli, in ucraino si chiama Nezlamni (intatti, indistruttibili appunto), un’eccellenza nazionale costruita da zero in pochi mesi, sette piani di palestre, laboratori di protesi, 54 posti letto resi disponibili a metà maggio. Corridoi in vetro e acciaio, camere modernissime e decenti, macchinari di avanguardia a volte acquistati dal municipio, a volte donati da tedeschi, svizzeri, svedesi. E’ dove vengono fabbricate le protesi per i soldati feriti al fronte. Gambe, braccia, mani. E’ anche dove si viene a fare il tagliando del proprio nuovo arto, capire se il movimento è corretto, perché fa così male quando lo si indossa, come mai si è aperta quella piaga. Volodymyr, Shamil, Ruslan. Ventenni saltati su una mina, bombardati sul fronte a Bakhmut, a Kharkiv. Ora qui per ricominciare a camminare, a vivere. Di ciascuno ci si chiede: ma sarà vero che non soffrono, come dicono? Non parliamo della sofferenza fisica, che se ora c’è è transitoria, e quella passata per quanto grande in fondo è la più facile da dimenticare (come si sta bene dopo che si è stati male…, diceva il nonno medico). Ma del fondo scuro dei pensieri, del residuo notturno, delle paure pratiche che assediano la vita di un uomo: come farò, senza una gamba – o senza entrambe? Potrò occuparmi della mia famiglia? Ogni quanto dovrò sostituire quest’arto meccanico, avrò ferite da pulire, avrò problemi posturali, conseguenze alla colonna, mal di schiena continui? Avrò sempre la voglia di tenermi in allenamento, di prendermi cura di me? Soprattutto. Ne è valsa la pena? Il mio paese mi sarà riconoscente, e in che senso? Mi daranno una medaglia, forse me l’hanno già data, e poi…? Ci sarà qualcuno che si ricorderà di quel che ho fatto, o finirò in quella triste e scomoda categoria dei reduci menomati, degli storpi che si preferisce non vedere come con ogni memoria dolorosa e imbarazzante? No, nessuna domanda angosciata, dicono questi ragazzi, da dietro i loro begli occhi azzurri e slavati. Nessun incubo, solo motivazione. Sono sinceri? E’ l’orgoglio a farli parlare così, è l’inconsapevolezza della gioventù a proteggerli, quella condizione fantastica dei vent’anni per la quale alla sera ti addormenti sempre, come un piombo, qualsiasi cosa ti aspetti domani? E’ il fanatismo inevitabile della guerra, quel cocktail immunitario di esaltazione adrenalinica combinata alla disciplina dell’esercito? Oppure ancora – è la domanda più angosciante, che sorge alla fine, quando stiamo per andare via – qui c’è solo un estratto prezioso delle storie del fronte, quelle dei più lucidi e motivati e vigorosi, dei più audaci e compunti, mentre i disperati, gli sconquassati, gli scoppiati sono altrove? Eppure chiunque può farsi curare qui, dice Zoriana Hasii, portavoce del centro. Non c’è mica un accesso riservato. Le porte sono aperte. E nessuno, durante una visita di un paio d’ore, ci costringe a seguire un percorso segnato, ci chiude una porta, ci impedisce di parlare con qualcuno delle decine di ragazzi che incrociamo casualmente su e giù per le scale, di ascoltare le loro storie, di chiedere a questo e a quello. Insomma, non siamo in una vetrina. Non c’è ombra di censura di guerra. E prima di tornare all’aria aperta Rosty vuole mostrare ancora una cosa. “Vieni, ti faccio vedere”. Infila un paio di corridoi, e dalla bellezza smagliante e intonacata di Unbroken ci ritroviamo in un lugubre reperto dell’era sovietica. “La vedi, quest’ala? Quanto è vecchia e brutta e lontana dagli standard europei? Te lo immagini, come cambierà, quando saremo nell’Unione Europea e potremo completare il restauro dell’ospedale?”. La capacità spiazzante degli ucraini. Come un ragazzino onesto e ingenuo di rivelarti un po’ tutto di sé, in un colpo. Senza le precauzioni e le pose minimaliste degli italiani e degli europei occidentali. Virtù e problemi, altezze e arretratezze. Senza nessun pudore, nessuna Mianzi come i cinesi chiamano la faccia, nel senso di perdere la faccia, quell’ossessione per la reputazione nazionale, molto omertosa, molto totalitaria, che porta a nascondere sotto il tappeto quel che non va del proprio paese. No, qui il senso perenne è: guarda quanto lavoro c’è da fare, guarda come ci è stata preclusa la strada per l’Occidente in questi decenni post-sovietici, guarda il degrado e l’inefficienza che dobbiamo ancora risolvere, non come i nostri vicini polacchi, slovacchi, lituani con il loro destino europeo e civile. Il desiderio, sopra a tutto, di sbarazzarsi al più presto, in modo fisico e paesaggistico, dell’onnipresente mostro sovietico. Del gigantismo e del cemento, della ruggine, dei casermoni – l’ospedale stesso lo è, cioè entriamo proprio per mezzo di uno di quegli edifici enormi e brutali, al quale la clinica nuova è connessa attraverso un corridoio sospeso, che fa da ponte tra la vecchia e la nuova Ucraina. Un altro esempio di questo fronteggiarsi reciproco di passato e futuro è il vecchio grattacielo in cemento degli anni Settanta che sta proprio davanti allo Sheptytsky Center, complesso dell’Università Cattolica dell’Ucraina diretto da Oleh Yaskiv, intellettuale e patriota, presidente del think-tank “European Dialogue”. Da una parte l’Università, punta di diamante ucraina, con la chiara ambizione di essere una specie di Silicon Valley galiziana, 2.600 studenti, centinaia di borse di studio attivate; da una parte le aule nuove e fresche, tutte vetrate e luce (tutte glasnost, si stava per dire, ma no, è una parola russa, meglio evitarla), le sale di lettura, la biblioteca vasta e multilingue, l’auditorium dove si tengono gli incontri del Pen Ukraine, e quel docente-ragazzino palestratissimo che saltella come Peter Pan mentre tiene un corso sulla Corte europea dei diritti dell’uomo (!); da una parte questo edificio dello Sheptytsky, disegnato da un architetto di Francoforte, coi suoi prati all’inglese e i ragazzi in short e maglietta e infradito. E dall’altra, a poche centinaia di metri, quel mostro di grattacielo brezneviano. E’ l’ex sede della sezione locale del Partito comunista sovietico, ora è sede dell’agenzia delle entrate ucraina. Architettura sovietica, Cccp e tasse: il male puro. E ancora un po’ più in là, di nuovo riprende la sinfonia danubiana di facciate neoclassiche e di colonne ottocentesche… “Leopoli è tutta così. Non solo una stratificazione di edifici, ma proprio la sensazione straniante di case che si svuotano e si riempiono a fasi alterne, lasciate dai precedenti occupanti, rioccupate da quelli nuovi, spesso proiettati qui dalla pianificazione di Mosca, dalle ondate di urbanizzazione coatta, spesso ignari e inconsapevoli”, dice a sera Ostap Slyvynsky, poeta, letterato sui quaranta, che insegna letteratura polacca agli ucraini. “Parte della nostra letteratura recente gira intorno a questa sensazione. Per dire, l’avete letto ‘Il regno dei sogni di Dom’, di Viktoria Amelina? No? Be’, è un romanzo sulla famiglia di un colonnello sovietico che negli anni Novanta si ritrova a vivere, in centro a Leopoli, nell’appartamento che era stato del celebre scrittore polacco ebreo Stanislaw Lem, raccontata dal punto di vista di un cagnolino, Dominik. Ma né la casa né il cane riescono davvero ad accogliere il colonnello”. Viene subito in mente “Cuore di cane” di Bulgakov: e infatti succede di citarlo, nella conversazione, lo scrittore russo, nato a Kyiv ma al centro di un furioso dibattito nell’Ucraina invasa dalla Russia, se non altro per le visioni espresse nella “Guardia bianca” e considerate da molti ucraini né più né meno che letteratura coloniale: un dibattito che è materia incandescente, basti dire che a Kyiv ci si chiede se tenerlo aperto, il museo dedicato a Bulgakov, e che il tema divide gli stessi abitanti. In America si è dimessa dal posto di vicepresidente del Pen Masha Gessen per protesta contro la cancellazione dai festival letterari di autori russi dissidenti, con parole che però (a differenza che da noi) ricomprendono tutta la solidarietà verso il popolo aggredito e dalle quali si percepisce l’assoluta lacerazione tra free speech e comprensione verso le ragioni di chi viene, oggi, in questo momento, massacrato, torturato, filtrato, spedito in Siberia. Ci sono, comunque, almeno un paio di cose che vanno tenute a mente. Non solo il fatto storico, immenso e cubitale, che le autorità russe e poi sovietiche agirono su scala secolare con l’intento deliberato di confinarla a parlata domestica, quando non proprio di sradicarla, di estirparla, la lingua (cioè la cultura) ucraina. Anche gli amici scrittori e letterati qui a Leopoli, che pure sono così attenti a salvaguardare le mille rifrazioni etniche e linguistiche del paese – a volerle tutte, pluralisticamente, nel mosaico dell’Ucraina moderna (è il lavoro di Olesya, specializzata nel recupero della eredità culturale e letteraria dell’ebraismo ashkenazita che qui aveva uno dei suoi epicentri) – su questo tema, il solo aggettivo “russo”, si arrestano, immobilizzati dalla rabbia. E’ chiaro che non è questo lontanamente il momento, il tempo, la situazione, per nemmeno affrontare un tema che la decente delicatezza vorrebbe semplicemente evitato, e basta: con lo stivale dell’invasore in casa, con i campi di filtraggio e le fosse comuni e i condomini sventrati dai missili, cosa vuoi che dicano e concedano oggi anche i più illuminati di loro? Come reprimere l’istinto fisico, “appena sento il suono di quella lingua mi viene male allo stomaco”, che Olesya, la gentile, liberale, tollerante Olesya, confessa con la solita sincerità? Fatte salve le molte differenze (tra cui, va detto, il disporre o meno di un esercito di difesa), chi avesse avuto la malsana idea di chiedere a un ebreo di Varsavia a fine anni Trenta che cosa ne pensasse di Goethe o di Wagner, avrebbe potuto mai pretendere di ricevere una risposta lucida, distaccata? “Come li capisco. Mi viene in mente mia nonna”, dice Kasia, polacca di Cracovia. “Per quanti anni dopo il 1945 non poteva sentire parlare tedesco? E mica li voleva morti, era una persona mite. Ma il suono della lingua… è una cosa primordiale”. Prima di irrigidirci di fronte a queste parole, prima di pensare: oh, no, ecco l’ennesima storia dell’Europa orientale che dalla padella degli imperi finisce nella brace dell’etnonazionalismo, sarebbe il caso di fermarsi ad ascoltarli per davvero e seriamente e senza condiscendenza, i giovani delle generazioni post sovietiche. E non solo in Ucraina, non solo nella Bielorussia della Alexievich. Ascoltarli con onestà intellettuale, volendo cogliere le intenzioni buone e serie, e non qualche eccesso dettato dal momento tragico. Quello che chiedono, che implorano questi giovani è di prendere coscienza definitivamente che “colonialismo” non è solo quello dei britannici in completo kaki in Kenya, o dei francesi in Algeria o dei belgi in Congo. Davit Gabunia, giovane autore di Tbilisi, ha scritto in proposito su Internazionale: “Ogni volta che parlavo con i miei colleghi europei, soprattutto tedeschi e francesi, dei rapporti tra russi e georgiani, percepivo il loro scetticismo. Ho colto i loro sguardi dubbiosi, come se volessero insinuare che soffrivo di russofobia, che ero in preda alla paranoia, e che le situazioni che descrivevo non erano poi così gravi. So benissimo che è praticamente impossibile spiegare la complessità di quei rapporti a chi non conosce il contesto. Non bastano un paio di conversazioni per convincere qualcuno che dopo il 1801 la Georgia era diventata una colonia dell’impero russo. ‘Colonia’ è proprio il termine corretto. Come si può descrivere una lotta lunga un secolo per preservare la propria lingua? Sicuramente il mondo avrà sentito la propaganda putiniana sostenere che l’ucraino non è una lingua a sé, ma un dialetto russo. Io parlo perfettamente russo e posso affermare con decisione che l’ucraino è una lingua a sé stante, una lingua che l’impero ha combattuto senza successo per tanto tempo. La verità, miei cari lettori, è che la lingua ucraina è sopravvissuta”. Nella Leopoli del maggio 2023 il coprifuoco scatta a mezzanotte, ma nessuno sembra curarsene fino almeno alle 23 e 45, fai anche 23 e 50. Anzi, quando il proprietario del locale tira giù pigro la serranda ci si accorge che in realtà è già mezzanotte e un quarto. In città, come scriveva Orwell di Barcellona, “le botteghe restano aperte fino a tardi”. I ristoranti giapponesi, messicani, tailandesi, polacchi, american barbecue funzionano a pieno regime dalla mattina alla sera, spesso con orario continuato. Luci, musica, pos, menù bilingui. Idem le librerie, i negozi di vestiti, i parrucchieri, perfino gli strip club. Le vie sono piene e rumorose. Il Mad, gigantesco cocktail bar a cinque piani, con area disco, area birreria, area ristorante, area enoteca italiana, ha gli schermi a reti unificate sul Manchester City-Real Madrid e un tavolo con una gran scritta al neon “this is a shared table, love each other” sotto alla quale si affollano normali teenager di una normale città. La voglia di vivere è solida, ingombrante. A mezzanotte e qualche minuto si torna in albergo. Già a letto, un messaggio sul telefono di Olesya e Rosty: “Dicono che quattro bombardieri strategici TU95 si sono alzati in volo dalla base di Murmansk, e che c’è altra roba sul Mar Nero, stai all’erta”, non fa piacere leggerlo ma è tardi, l’occhio sta per chiudersi… Si riapre di colpo alle 4.45. Sullo smartphone poggiato sul comodino si accende la app Air Alert che qui ti fanno scaricare appena passi il confine. Ma come, non eravamo nella sicurissima Leopoli? E invece. Un allarme aereo che suona nel cuore della notte, il rumore della sirena uguale a quello delle nostre città ottant’anni fa, che viene da fuori, dalle finestre lasciate socchiuse. Uno spavento tra i sogni. La luce accesa al volo. Raccogliere di corsa tutto e via, giù per le scale, andare nel rifugio. Non accadrà nulla, protetti come siamo dai sistemi di difesa antiaerea che contano sulla fantastica tecnologia occidentale (le armi che salvano vite, con buona pace dei pacifisti referendari). Olesya: “I russi attaccano apposta tra le quattro e le cinque del mattino, quando le persone sono più vulnerabili e indifese. Intendo che accade di proposito, non è successo solo con i bombardamenti attuali ma con le nostre proteste di EuroMaidan, quando i filorussi venivano a picchiare le persone in piazza a Kyiv proprio alle quattro del mattino. E prima, quando i russi deportavano i tatari di Crimea in piena notte. E ancora, quando mia nonna kulaka è stata deportata in Siberia, nel 1937, i sovietici l’hanno presa proprio a quell’ora della notte”. A Lychakiv, accanto al vecchio cimitero monumentale dell’era asburgica, c’è un rettangolone di prato verde, un campo spoglio e semplice come i cimiteri dei caduti alleati di Arromanches, di Anzio. Qui sono sepolti, e ogni giorno le fila si ingrossano, i ragazzi di Leopoli morti da febbraio 2022 sul fronte. Nati nel 1985, 1993, 1996, 1998, 2002. Ventenni caduti ai confini dell’Europa. Le bandiere gialle e blu garriscono al vento, ma anche qui, perfino qui, non si respira aria di sciovinismo estremo, di culto delle armi, di retorica bellicista o virilista. Semmai, oltre alla sofferenza, c’è molto patriottismo. Il sentimento patriottico ucraino è forse quello che, da occidentali scettici, è per noi più difficile da capire davvero. E sì che nella Francia rivoluzionaria, nella Giovine Italia, nella Barcellona repubblicana, a Londra nel 1940 c’era un gran fervore collettivo, un vero fanatismo democratico. Ma nella maggior parte gli europei di oggi, specie la sinistra ma non solo, vivono quei sentimenti come imbarazzanti, estranei. Che milioni di persone oggi in questo paese possano vivere un comune sentimento di amor di patria senza per questo vivere in una dittatura ci sembra talmente assurdo da essere necessariamente propaganda neocon. E invece. Lo storico Yaroslav Hrytsak la mette giù con una semplicità disarmante: “A Zelensky in quanto leader di guerra io do un A+, questo è fuori discussione. Poi quando questa guerra sarà finita, e quando l’Ucraina avrà vinto, si aprirà una nuova stagione. Credo che gli saranno dedicati monumenti, e che si farà da parte. Come fece Churchill. E non perché abbia fatto qualcosa di particolarmente sbagliato. Anzi. Ma perché è sano per la democrazia ucraina che ci sia un ricambio e che il potere non resti a lungo nelle stesse mani”. Pensare per un attimo alla civiltà di queste parole. Pensare che è un compito, il ricambio periodico di potere, che spesso non riesce per primi a noi stessi. Ma alla fine è tutto così, con gli ucraini: che cosa vogliamo, in definitiva, da loro? Che cosa pretendiamo? Be’, che siano bravi, eroici combattenti, innanzitutto. Che siano disponibili al sacrificio di fronte all’esercito gigantesco del dittatore. Che però si comportino bene, in guerra. Che mentre vengono deportati restino umani. Che la loro sia una bella democrazia compiuta e matura, che estirpino la corruzione, che riformino il sistema giudiziario, che amino il proprio paese ma non si facciano prendere dalle passioni nazionaliste; che superino indenni la generazione dei padri, la lost generation degli anni Ottanta e Novanta spesso alcolizzata e sgangherata e disperata; che siano già europei a tutto tondo come gli occidentali, i quali non vedono una guerra da ottant’anni; che si liberino in fretta di tutti quei brutti edifici brezneviani antiestetici e tristi; che resistano ai russi senza però odiarli, che combattano ma che siano politicamente assennati e che sostengano il presidente, sì, ma senza farsi prendere dall’adorazione del capo, e che crescano nuovi bambini in questo casino micidiale, straziante, e che facciano i conti con le frange estremiste che hanno in casa come tutte le nazioni di questo mondo, con la storia, col passato, con Stepan Bandera… C’è altro? Insomma, in un colpo, dopo che li abbiamo praticamente scoperti dal nulla, preso atto che di fronte al tentato blitzkrieg putiniano c’era un popolo che resisteva al dittatore, già lo vogliamo perfetto, quel popolo. Applichiamo a loro una pretesa che non applichiamo a nessuno, a cominciare da noi stessi. Qual è il problema? Che di Hirnyk, il tizio che si era dato fuoco nel ‘78, come di Vasyl Makukh, che dieci anni prima si era ugualmente immolato per la causa del suo paese bruciando per le strade di Kyiv, la gran parte di noi non sapeva nulla, e forse non saprà mai. Sappiamo di Ian Palach, perché in fondo Praga, piazza San Venceslao, Kafka, la vita urbana, la Boemia, eccetera. Ma di questa epopea tragica e splendente della libertà ucraina, che cosa sapevamo, prima del 24 febbraio 2022? Che cosa sappiamo tuttora? Chi se ne è mai fregato qualcosa, del punto di vista di quei contadini disperati degli ucraini? Perché è vero quello che dice Hrytsak nella sua “storia globale dell’Ucraina”, ora edito in Italia dal Mulino: la tragedia storica della nazione ucraina, nell’Ottocento della primavera dei popoli, è l’essersi poggiata su quella classe dolce e ribelle, vaga e familiare, ma infine così politicamente incerta e inconsapevole, che sono i contadini. La terra, la zemlya, la terra scura e fertile dell’Ucraina, così ambita e desiderata nei secoli. La terra su cui ora esplode in macchie fosforescenti, sui colli intorno a Leopoli, la colza gialla. La terra da cui nascere e a cui restare legati, “in qualche modo sei cresciuto in questa buca tra i paesi, / tra monaci, anarchici e rifugi, comunità ebraiche, repubbliche, / tenendo la lingua tra i denti per non tremare” (Serhii Zadan). La terra che nasconde e protegge, nelle trincee, Volodymyr, Ruslan, Shamil e tutti gli altri soldati resistenti a Bakhmut. La terra che accoglie i corpi dei loro amici caduti.
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