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Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 04/06/2023, a pag. 7, l'analisi di Siegmund Ginzberg dal titolo 'La decimazione dei giornali'.
Adolf Hitler Le firme invise al nuovo governo sparivano da un giorno all’altro. I direttori sgraditi venivano sostituiti. Della radio si erano impadroniti completamente sin dal primo giorno. Le redazioni si svuotavano. Molti editori di giornali avevano fiutato l’aria anzitempo. Si erano adeguati senza che nemmeno gli venisse chiesto. Quando gli venne chiesto, anzi furono obbligati, non c’era più niente da fare. I proprietari di alcuni tra i giornali più prestigiosi, veri e propri monumenti alla libertà di stampa, erano famiglie di origine ebraica. Furono i più solerti a licenziare i giornalisti ebrei, o in odore di sinistra, o troppo liberal, o che, per una ragione o l’altra, davano fastidio ai nazisti. Non furono premiati per l’arrendevolezza. Né i direttori che speravano di venire riconfermati saltando sul carro dei vincitori, né i proprietari che speravano che il nuovo potere li lasciasse stare. I giornali gli vennero portati via lo stesso. Persero la ditta, il posto, i soldi, la Patria, ma anche la credibilità e l’onore. Gli Ullstein, ad esempio. Avevano un impero mediatico che, a quel che ne scrisse il New York Times nel 1930, superava qualsiasi catena editoriale negli Stati Uniti. Erano all’avanguardia rispetto al resto del mondo in ogni campo, dalla redazione, alla stampa, alla distribuzione, alla pubblicità. Avevano inventato i tabloid e il foto-giornalismo sulla carta patinata. Pubblicavano l’avveniristico illustrato Tempo. Avevano una corazzata come la Vossische Zeitung, roba da far impallidire la potenza di fuoco di qualsiasi altro grande giornale al mondo. Tante Voss, Zia Voss lo chiamavano familiarmente. Per i berlinesi di peso era inconcepibile non essere menzionati sulla Vossische (a pagamento si intende) in occasione della nascita, del matrimonio o dei funerali. Liberali, grosso modo di centrodestra li si definirebbe oggi. Da sinistra li si accusava di “allontanare dalla politica” i loro lettori “incatenandoli con intrattenimento a basso costo”. Ma ospitava le firme del poeta Kurt Tucholsky, dell’autrice di Grand Hotel Vicki Baum, di Erich Maria Remarque, il quale vi aveva pubblicato a puntate nel 1928 il bestseller assoluto Niente di nuovo sul fronte occidentale. Per Casa Ullstein lavoravano diecimila persone. Il loro quartier generale a Berlino era una città nella città, un alveare di testate, direttori, caporedattori, giornalisti, segretarie, fattorini. Per loro lavorava un giovane stagista, che in seguito sarebbe diventato famoso, Arthur Koestler. Ecco la sua testimonianza: “Si vedevano volti nuovi, sparivano le vecchie maestranze […] Benché gli Ullstein fossero ebrei, le vittime dell’epurazione erano tutti ebrei, i rimpiazzanti, a quanto mi ricordo, tutti ariani [... ] Benché gli Ullstein avessero opinioni progressiste, quelli che venivano mandati via erano tutti di sinistra, quelli che venivano assunti tutti nazionalisti”. Tra le prime vittime illustri, Bella Fromm, grande cronista mondana della Vossische, adorata dai lettori, rispettata da tout le monde. La sua colpa: essere ebrea. Agli eredi del fondatore importava poco della libertà di stampa. Assai più delle finanze disastrate dalla crisi. Il bello è che la sottomissione non gli servì. Furono “arianizzati”, espropriati. Sarebbero tornati in possesso della casa editrice solo negli anni ‘50, diventando il gruppo Springer. Maledetti eredi, distruttori del buon nome dei predecessori. Alla morte del fondatore, alla guida del gruppo Mosse, altro impero mediatico, liberale ma di centrosinistra, erano subentrati la figlia e il genero. Non gli importava un fico secco della continuità della linea dei giornali. Solo di non rimetterci soldi. Erano proprietari del lettissimo Berliner Tageblatt. Litigavano coi direttori e l’amministratore scelti dal vecchio Rudolf Mosse. Lo sostituirono con un nuovo amministratore più esperto in pubblicità e in taglio dei costi che in giornalismo. Si erano messi in testa di rendere il giornale più “popolare”. Avevano di conseguenza ridotto gli organici, sfoltito, e di parecchio, le firme che scrivevano di politica e argomenti considerati troppo “seriosi”. Persero sia i lettori che i soldi. Andarono in fallimento. Dovettero cedere per un tozzo di pane tutti i giornali ad imprenditori ariani amici dei nazisti. Franz Lachmann-Mosse (doppio cognome perché quando era un semplice contabile alle dipendenze di Rudolf Mosse ne aveva sposato l’unica figlia) riparò a Parigi. Per completezza va aggiunto che Hermann Göring lo contattò proponendogli di tornare a fare il direttore editoriale del Berliner Tageblatt. L’avrebbero fatto “ariano onorario”. Lui rifiutò. Capì che i nazisti volevano impadronirsi anche della rete di agenzie di stampa internazionali che restavano in possesso della famiglia. Del resto Hitler era stato chiaro: aveva convocato tutti gli editori “indipendenti” e gli aveva detto che i loro giornali gli servivano ancora per una sola cosa: alleviare le apprensioni internazionali che pesavano sul suo governo. Non andò meglio ai giornali degli alleati di governo di Hitler. Se metà dei giornali “indipendenti” appartenevano a famiglie di origine ebraica, l’altra metà apparteneva all’ultrà conservatore Alfred Hugenberg. Oltre a catene di giornali di provincia e al Berliner Lokal-Anzeiger, il più venduto nella capitale, aveva un impero cinematografico. Aveva ambizioni politiche. Si era impadronito del Partito Popolare Nazionale Tedesco (Deutschnationale Volkspartei, Dnvp). La sua bestia nera erano la Costituzione di Weimar, il “Sistema internazionale” dei “nemici della Germania”, la sinistra e gli ebrei. Era stato lui ad avere, assieme al collega centrista (o del terzo polo se vi pare) Von Papen, la brillante idea di un governo di coalizione affidato a Hitler. “Tanto poi lo controlliamo noi”, dicevano. E invece nel giro di pochi mesi aveva perso anche lui tutti i suoi giornali, il ministero dell’Economia, e pure il seggio al Reichstag. Giornalisti, scrittori, intellettuali, uomini di spettacolo sgraditi al nuovo governo finivano in campo di concentramento, erano costretti a scappare all’estero, oppure cambiavano mestiere. La stragrande maggioranza aderiva, con maggiore o minore entusiasmo, per convinzione o per opportunismo, al nuovo regime. Molti col fanatismo classico dei neofiti e dei convertiti, da più nazisti dei nazisti, come chi ha un altro passato da farsi perdonare. Gli altri si barcamenavano, cercavano di sopravvivere. Mi è capitato di leggere in questi giorni un saggio su una figura meno conosciuta, Walter Heinemann, considerato il più brillante rappresentante del giornalismo cattolico tedesco. Era uno che già a vent’anni, da free lance, aveva girato il mondo e intervistato Sun Yat-sen, il Mahatma Gandhi, Mustafà Kemal, il ministro degli Esteri di Stalin Maksim Litvinov e Franklin Delano Roosevelt, nonché il Papa. Lo fecero e poi lo mandarono via da direttore del quotidiano cattolico Germania, poi gli tolsero anche Vox Gentium, un’agenzia di stampa che aveva creato dal nulla. Siccome non era iscritto al Partito nazista, non riuscì nemmeno a farsi assumere come addetto stampa alla Siemens. Prima dell’epurazione la stampa tedesca aveva una grande tradizione. La Costituzione della Repubblica di Weimar garantiva che “ogni tedesco ha il diritto, nei limiti della legge, di esprimere liberamente la propria opinione a voce, in stampa, con l’immagine o in qualsiasi altra maniera […] Non c’è censura.” (articolo 118). Negli anni ‘20 e ‘30 si pubblicavano in Germania oltre 4.700 testate. Quasi tutti erano giornali locali. Oltre l’80 per cento erano imprese private, possedute da famiglie. Oltre metà si pubblicavano a Berlino (Con 4 milioni di abitanti, nel 1925 era la terza città al mondo, dopo New York e Londra). C’erano giornali del mattino, del pomeriggio, della sera, giornali che uscivano dal martedì al sabato, e giornali del sabato, della domenica, del lunedì. Il bello è che venivano letti. La capitale era inondata da un’alluvione di carta, milioni e milioni di copie. Costavano poco, venivano finanziati dalla onnipresente pubblicità. I berlinesi in genere erano abbonati ad un giornale del mattino (i più alla Morgenpost, del gruppo Ullstein). Ma poi compravano un altro giornale all’edicola (che era anche un medium pubblicitario, uno spazio di affissione per manifesti), e lo leggevano alla fermata del tram, alla stazione, nelle sale d’aspetto dei medici, nel lungo viaggio sui treni dei pendolari, o al caffè, la sera. Nel 1928 le ferrovie avevano trasportato 413 milioni di passeggeri, le metropolitane 265 milioni. Berlino da sola aveva 145 stazioni sopraelevate (ci sono ancora) e 70 stazioni del metrò. Era diventato un’abitudine leggere nel percorso da una stazione all’altra. La lettura veniva considerata un antidoto contro la noia, uno strumento indispensabile per far passare i tempi morti della giornata. Spiega probabilmente l’enorme diffusione dei tabloid. Ne L’operaio, pubblicato nel 1932, Ernst Jünger sostiene che l’abitudine di leggere giornali sui trasporti pubblici aveva cambiato radicalmente la vita delle classi lavoratrici. La distribuzione era capillare. Il materiale a stampa veniva venduto non solo nelle stazioni ma anche da eserciti di strilloni che passavano tra i vagoni da una stazione all’altra. Erano registrati, con tanto di licenza professionale. La stampa tedesca era dichiaratamente politicizzata. Mentre la stampa americana pretendeva (e ancora pretende) di fornire i fatti, le notizie separatamente dalle opinioni, quella tedesca inorridiva all’idea di esprimere solo i fatti e non anche, anzi soprattutto, l’opinione, anzi l’appartenenza politica di chi li raccontava. L’ideale di giornale non era riferire fatti o curiosità ma essere “uno strumento per predicare al popolo e far entrare a forza la voce della verità nei palazzi del potere, come nei tuguri dei poveri”. I giornali dichiaravano la propria appartenenza politica. E, al tempo stesso, davano al lettore quello che il loro particolare lettore voleva sentirsi raccontare. Dare e avere. Interattivo. Kurt Robitschek, direttore del Kabarett der Komiker, faceva ridere a crepapelle la sua audience raccontando come le diverse testate avrebbero dato la notizia di uno scontro tra un cane e un ciclista. “Il Berliner Tageblatt, nel suo inguaribile ottimismo liberale, scrive che cane e ciclista ‘si sono procurati qualche lieve contusione correndo entrambi lungo la Kurfürstendamm verso il brillante futuro della Repubblica’. Nel suo pessimismo liberale la Vossische Zeitung lamenta che la comparsa del rosso del sangue sul manto nero a chiazze oro del cane è emblematico del pericolo reazionario che minaccia la Repubblica [Reichsbanner Schwarz-Rot-Gold era la coalizione di Spd, Partito di Centro e Partito Democratico a difesa della democrazia parlamentare]. Il Lokal Anzeiger, nazionalista [del gruppo Hugenberg] scrive che un ciclista straniero ha travolto il cane di un generale. La Rote Fahne, organo del Partito Comunista, la mette invece così: ‘Sulla Kurfürstendamm, tempio del capitalismo trionfante su cui in un futuro prossimo la rivoluzione proletaria marcerà contro l’imperialismo, un cane attacca un ciclista, poi tutti i cani all’unisono danno addosso all’Unione Sovietica’. E infine il Völkischer Beobachter [organo del Partito nazionalsocialista]: ‘I nostri camerati sono stati attaccati, col favore della notte, da un vile cagnaccio […]. Domani il nostro Führer Adolf Hitler ne parlerà al Palazzo dello Sport. Venire in uniforme da battaglia, con bombe a mano e lanciafiamme”. Cambiò tutto col cancellierato di Hitler. Subito furono chiusi e proibiti i giornali di sinistra, la Die Rote Fahne (La bandiera rossa) dei comunisti e il Vorwärts (Avanti!) dei socialisti. “Ora abbiamo anche una leva contro la stampa. Le messe al bando si susseguiranno a raffica. Il Vorwärts e l’8 Uhr-Abendblatt, e tutti gli altri organi ebraici che ci hanno causato tanti fastidi e lutti, spariranno una volta per tutte dalle strade di Berlino”, notò nel suo diario Goebbels. Interessante accostamento: l’8 Uhr-Abendblatt non era un giornale di partito. Apparteneva alla famiglia Mosse, proprietaria anche del Berliner Tageblatt. Lo stesso Goebbels aveva cercato di farsi assumere dal BT (così lo chiamavano familiarmente) prima di diventare il capo della propaganda di Hitler. I nazisti ce l’avevano sempre avuta con la Lugenpresse, “la stampa bugiarda”. Per “bugiarda” intendevano tutta la stampa che non era sotto il loro controllo, che osava criticarli, pubblicare notizie per loro imbarazzanti, insomma la stampa che parlava male di loro e bene degli ebrei, che denunciava le violenze e i loro slogan deliranti. Indifferentemente dal fatto che fosse stampa orientata a sinistra, al centro, o a destra. Non avevano vocazione pluralista. E nemmeno vocazione maggioritaria. Solo un’incontenibile vocazione totalitaria. Brividi? Ma no, tranquilli. Qui non può succedere, per dirla col titolo di un romanzo del 1935, di Sinclair Lewis. It Can’t Happen Here immagina che negli Stati Uniti venga eletto un presidente di estrema destra. E’ populista, promette di riportare l’America alla prosperità di prima, si impegna a cacciare gli immigrati, garantisce a tutti i “veri americani” un reddito di 5.000 dollari l’anno (sarebbero 100.000 dollari di oggi), scatena un’invasione del Messico, imbavaglia la stampa, copia i metodi di Hitler per sbarazzarsi dell’opposizione. Finisce, nel romanzo beninteso, in guerra civile. Qui, pardon lì, non può succedere? Beh, tutti sanno che allora non successe per un pelo. Nel 1935 il governatore populista della Louisiana, Huey Long, fu assassinato mentre stava per candidarsi contro Roosevelt. (E stava per contendere la Casa Bianca, con buone possibilità di essere eletto, anche un altro amico della Germania nazista, il trasvolatore atlantico Charles Lindbergh. Anche nel suo caso succede solo in un romanzo, Il complotto contro l’America di Philip Roth, del 2004). Ma poi l’impensabile successe davvero. Nel 2017 venne eletto Donald Trump. Nel 2020 perse contro Biden. Ma i suoi sostenitori cercarono di riportarlo a forza alla Casa Bianca dando l’assalto al Congresso. Quindi mai dire mai. Per scaramanzia se non altro.
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