Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/06/2023, a pag.31 con il titolo "Dostoevskij alle origini dell'ideologia putiniana e del suprematismo dello spirito russo" il commento di Anna Zafesova.
Anna Zafesova
Fëdor Dostoevskij
Difficile immaginare un romanzo cui calza più a pennello la definizione di "classico russo". Insieme a Guerra e pace di Lev Tolstoj (la cui prima versione è stata pubblicata quasi negli stessi mesi), Delitto e castigo rappresenta la leggenda monumentale della letteratura russa, il romanzo dell'Ottocento al suo apice, tormento di generazioni di liceali russi costretti a scrivere temi sotto lo sguardo severo degli accigliati ritratti dei barbuti padri della patria. Il capolavoro di Fëdor Dostoevskij è il romanzo centrale per il culto della letteratura russa officiato dall'intellighenzia occidentale, il punto di partenza di tante carriere letterarie, la gioia dei critici, il perno dei corsi universitari, lo spunto per decine di film e sceneggiati televisivi. È la risorsa preferita di chi vuole mostrarsi colto e raffinato: tutti hanno sentito parlare della storia di uno studente pietroburghese che uccide l'usuraia, anche se spesso non sanno come è andata a finire, e molti conoscono gli aneddoti sullo scrittore che creò il suo romanzo più celebre – e buona parte degli altri – incentivato dai debiti di gioco (l'onorario, 7 mila rubli, nel 1866 una somma notevole, non bastò, e l'anno dopo la luna di miele dei Dostoevskij, venne finanziata dalla vendita dei gioielli della novella sposa Anna).
Tutti i cliché sulla "grande letteratura russa dell'Ottocento" sono veri per Delitto e castigo: la complessità narrativa, l'introspezione psicologica nella raffigurazione dei personaggi, la profondità della denuncia sociale e della riflessione filosofica, la formulazione dei grandi temi esistenziali e la varietà di figure appassionate e folli, il misticismo di ispirazione religiosa, la ricerca della redenzione cristiana e il coraggio nell'esplorare vertici e abissi dell'animo umano. In russo esiste perfino un termine apposito, "dostoevškina", che definisce i toni oscuri e ossessivi utilizzati da Fëdor Michajlovic per dipingere la realtà, e che ha spinto a un certo punto gli ideologi sovietici a eliminarlo dai classici ammessi nel limbo dei precursori del comunismo. Ma anche dopo il reintegro nel pantheon della grande letteratura russa, Fëdor Michajlovic è sempre rimasto a disagio, guadagnando sempre meno rappresentazioni bronzee e targhe con i nomi delle vie dei concorrenti Puškin, Tolstoj e Gogol'. Troppo cupo, infinitamente complesso, spesso angosciante, Dostoevskij si lasciava difficilmente schiacciare nella casella della "denuncia delle piaghe dello zarismo" riservatagli dalla critica ufficiale sovietica, e la venerazione che gli veniva riservata dagli intellettuali occidentali veniva accolta quasi con fastidio dai russi (che sospettavano, non a torto, di venire identificati con alcuni dei più morbosi personaggi dostoevskiani). In 160 anni, Delitto e castigo è stato analizzato in tutte le chiavi immaginabili. Quella psicoanalitica: Freud amava l'opera di Dostoevskij, e alcuni suoi allievi hanno provato a mettere sul lettino Raskol'nikov, un personaggio che l'autore indica come portatore di un trauma fin dal nome ("raskol" significa "scisso, diviso, spezzato"). Quella di sinistra – la denuncia del capitalismo e della diseguaglianza, con il crimine interpretato come prodotto del disagio sociale – che si concentra sul "delitto", e quella di destra che preferisce il "castigo", la punizione della ribellione individualista del protagonista, che si pente per venire ricondotto nell'umiltà cristiana. Insomma, un romanzo da manuale che però si può (ri) leggere in maniere sempre sorprendenti. Per esempio, come crime story: tutti i detective che risolvono enigmi analizzando la psicologia e ingaggiando duelli verbali con l'assassino sono allievi di Porfirji Petrovic (così come tutti i thriller giudiziari escono dalla costola dei Fratelli Karamazov). Oppure come un ritratto a mille facce di Pietroburgo: è vero che sono stati Gogol' e Puškin i primi a raccontare l'amore e l'odio per la capitale degli zar, ma è solo nei romanzi di Dostoevskij che diventa non solo scenografia, ma protagonista, e la "Pietroburgo di Dostoevskij" – delle camere in affitto e dei mercati puzzolenti, degli ubriaconi e degli scalatori sociali, delle prostitute e delle bettole, delle grandi speranze e delle illusioni perdute – è un binomio consolidato quando la "Londra di Dickens".
Oppure ancora come una storia di donne: i personaggi femminili sono senz'altro più vividi e forti di quelli maschili, determinate – perfino l'apparentemente mite e sottomessa Sonja – a seguire la propria strada, in un mondo di uomini deboli e/o molesti. Ma soprattutto va riascoltato oggi, in questa edizione in audiolibro letta da Paolo Pierobon, quando i classici russi sono stati tolti dai manuali per venire arruolati al fronte. I teloni con i quali le truppe di Putin hanno avvolto il teatro di Mariupol, per occultare le macerie di un luogo della cultura trasformato da una bomba russa in una fossa comune, sono decorati con giganteschi ritratti degli scrittori russi ottocenteschi. Dall'altra parte della linea del fronte, i monumenti ai classici russi vengono smantellati nell'Ucraina bombardata, e la cultura russa si vede negare l'appellativo di "grande" per venire messa sotto accusa per la sua responsabilità nell'avere come minimo non impedito una guerra di invasione e di sterminio giustificata dalla "difesa della lingua russa". E nessuno dei russi celebri si presta all'ipotetico banco degli imputati più di Dostoevskij, scrittore geniale e pensatore reazionario, che teorizzava che la salvezza del mondo non valeva la lacrima di un solo bambino, ma aveva anche descritto, teorizzato e proclamato la diversità superiore dello spirito russo. Più di 140 anni dopo, una nazione che fondava buona parte della sua autostima sulla eccezionalità della propria cultura, in primo luogo della letteratura, si è divisa tra la rimozione e l'orrore di fronte alle lacrime dei bambini ucraini (che spesso parlano lo stesso russo in nome del quale vengono uccisi). Per riassemblare quel che resta della Russia e della sua tragedia eterna, bisogna anche rileggere i suoi classici, idoli abbattuti, scrostati dalla guerra dal scintillante bagno di oro dell'ideologia, tornati vivi, discussi e discutibili. Forse nessuno di loro è più attuale di Dostoevskij per capire cosa ha agitato e turbato i russi di fronte alla modernizzazione europea, e per riscoprire il messaggio profondo del suo romanzo più famoso: dopo il delitto, il castigo non è la punizione, ma l'ammissione della propria colpa, un passaggio necessario senza il quale è impossibile espiarla.
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