Turchia 2: corruzione, brogli e violenza gli strumenti di Erdogan Analisi di Ece Temelkuran
Testata: La Stampa Data: 30 maggio 2023 Pagina: 25 Autore: Ece Temelkuran Titolo: «Corruzione, brogli e violenza: la vittoria dello Stato-partito»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/05/2023 a pag.25 con il titolo "Corruzione, brogli e violenza: la vittoria dello Stato-partito", il commento di Ece Temelkuran.
Ece Temelkuran
Gli stranieri chiedono: "Come è possibile? Perché ha vinto di nuovo?". Io rispondo dicendo tre cose, in questo ordine: primo, le cifre non sono del tutto affidabili a causa dei brogli elettorali. Secondo, la competizione elettorale non è stata equa: noi ci siamo battuti contro uno stato-partito. Terzo, avete voglia di ascoltare la versione lunga dei fatti? Se è così, ecco qui. Erdogan, più di ogni altra cosa, ha insegnato alla Turchia che il fascismo non è soltanto opera di cattivi che sconfiggono i buoni e li sostituiscono dalla sera alla mattina. Si tratta, invece, di un tracollo morale esasperatamente lento, di un processo politico in technicolor che fa a pezzi l'intera società. Tutto incomincia come qualsiasi schema a piramide. All'inizio troppe persone credono con troppo entusiasmo in qualcosa di losco. Poi subentra l'enorme tempesta dell'"Everything, Everywhere, Happening all at Once" che, secondo una battuta molto popolare in Turchia, sembra quasi una prova di resistenza su vasta scala gestita da alieni malvagi. Poi, nel gran finale, dopo vent'anni di incredibile indebolimento, il Paese deve scegliere tra perdere tutto oppure ricostruire a partire da zero, sia dal punto di vista politico sia da quello morale, tutto ciò che è andato distrutto. Nel XXI secolo il fascismo, ci ha insegnato Erdogan, è ancora una questione di sfacciataggine, di crudeltà organizzata e di condiscendenza. E inizia sempre con promesse impossibili. Ventuno anni fa, Erdogan era un conducente di tram che prometteva a tutti di portarli a destinazione, addirittura in direzione opposte. Aveva una causa. La causa rimase abbastanza vaga da attirare chiunque. Ed è così che i poveri delle città, gli imprenditori conservatori dell'Anatolia centrale, le sette islamiche, l'élite liberale di Istanbul, gli ex sinistrorsi e i centristi elessero i loro rappresentanti. A non molti piaceva che fossero ricordate loro le parole pronunciate da Erdogan prima di arrivare al potere nel 1996: "La democrazia per noi è un tram. Scenderemo quando saremo arrivati dove vogliamo arrivare". Il tram è andato troppo veloce, quelli che hanno deciso di scendere sono stati investiti, e già troppe persone si sono lasciate suggestionare fin dal primo giorno. Erdogan ha instaurato un rapporto emotivo indissolubile con la sua base prima di salire al potere. Ed è stato anche maledettamente fortunato. Subito dopo l'11 settembre, quando l'Occidente aveva bisogno di un leader esemplare nel mondo musulmano, gli fu facile cavalcare l'onda e incarnare agli occhi di tutta la comunità internazionale il connubio perfetto tra Islam e democrazia. In Turchia, grazie al predominio nel dibattito politico di valenti addetti alle relazioni pubbliche del partito, è riuscito ad assimilarsi alla democrazia. Se siete contro Erdogan, siete contro la democrazia. Il culto della sua persona, così efficacemente costruito da lui stesso, è rimasto inviolabile grazie al fiorire dell'economia. Non molti erano disposti ad ammettere che, di fatto, Erdogan stava trasformando il contratto sociale dietro le quinte, con la sottomissione a chi governa in cambio di benessere economico. Eppure, nel 2007, quando ha vinto ed è stato eletto per la seconda volta, nel discorso per la proclamazione della sua vittoria qualcosa ha timidamente segnalato un cambiamento: "Quelli che non hanno votato per noi sono gli altri colori di questo Paese". Da allora, alcuni di noi non sono stati più cittadini alla pari, ma un abbellimento del Paese. In un primo momento sono stati quelli sacrificabili poi, con il passare del tempo, sono diventati quelli da disapprovare. Con sufficiente sostegno politico, nel secondo mandato sono occorsi a Erdogan soltanto tre anni per trasformare il regime a suo piacere. La democrazia parlamentare è stata soppiantata da un sistema presidenziale con minimo controllo mentre l'apparato statale, compreso il ramo giudiziario, è diventato un arto artificiale del presidente. Il tutto è avvenuto con due referendum soltanto. L'epurazione tra le forze armate, i media e gli opinion leader laici ha segnato il suo secondo mandato. Un'enorme struttura carceraria, Silibri, è stata realizzata con tanto di tribunale interno per stare al passo con le sentenze sfornate a getto continuo. Il suo stile mafioso sempre più spiccato in politica, il crescente nepotismo al governo, l'inizio della corruzione assoluta del suo potere assoluto erano ignoti ai suoi sostenitori, perché Erdogan è riuscito a mettere a tacere tutti i media più importanti con indagini tributarie e mandando in carcere i giornalisti. Oltre a esercitare il controllo su quasi il 90% della stampa, nel 2012 la macchina della propaganda del partito ormai lavorava a pieno regime anche sui social media di recente diffusione, e gettava fango su qualsiasi personaggio politico che esprimeva critiche contro Erdogan. Quell'anno a mio nome c'erano molti account porno, molti dei quali creati per far credere che io fossi una concubina in un palazzo di uno sceicco saudita, se non una spia al soldo di britannici, tedeschi e iraniani, tutti contemporaneamente. Le crescenti tensioni politiche esplosero nel 2013, durante le proteste per il Parco di Gezi, e dilagarono nel Paese per tutta l'estate. Milioni di persone tennero testa alla sua oppressione. La reazione fu spietata. L'insaziabile brama di potere di Erdogan e il suo disfacimento morale si manifestarono in due incidenti sanguinosi: quando impartì l'ordine alla polizia di aprire il fuoco e quando fece scendere in piazza i suoi sostenitori. Il tutto si concluse con dodici morti. Una delle vittime, il diciassettenne Ali Ismail Korkmaz, fu picchiato a morte da alcuni commercianti, fedelissimi di Erdogan. Il quattordicenne Berkin Elvan, investito da una lattina di gas lacrimogeno, morì dopo mesi di coma. Quel giorno, il presidente invitò i suoi sostenitori presenti a un comizio a fischiare i genitori del ragazzo, accusati di essere terroristi. Paralizzati dalla sua sfrontatezza, i presenti rimasero frastornati quando, per sbaglio, si udirono dall'altoparlante le parole di una sostenitrice del presidente che diceva: "Io sono i peli sul culo di Erdogan!". Molti commentarono dicendo: "Stiamo combattendo contro gli orchi". La malvagità sconvolgente di cui Erdogan ha prova dopo il 2013 è penetrata giù, fino alla sua base, e i suoi tirapiedi hanno assunto il controllo della vita sociale al punto che quando i femminicidi sono aumentati in modo esagerato gli assassini hanno potuto restare pressoché sicuri di rimanere impuniti: bastava gridare a voce abbastanza alta "lunga vita a Erdogan!". Nelle cause di divorzio, il coniuge che accusava l'altro di aver denigrato Erdogan aveva la meglio. Nel 2014, quando ha messo piede nel sunuovo gigantesco palazzo abusivo, si è visto che godeva di un alto livello di immunità. In otto anni della sua presidenza sono state intentate quasi duecentomila cause per diffamazione del presidente, 305 delle quali a carico di bambini. Erdogan ha vinto le elezioni del 2014 e 2018 con la politica della paura, con brogli elettorali su vasta scala, con l'oppressione vera e propria. Malgrado ciò, è stata perlopiù la rete dei rapporti economici politici a tenerlo saldamente al potere, come pure la rete della sicurezza che ha tessuto così bene a suo favore. Nel mezzo, poi, c'è stato lo strano colpo di Stato del 2016. Il colpevole è stato indicato nel movimento di Fethullah Gülen, suo ex alleato politico, a cui aveva assegnato i ministeri delle forze armate, dell'istruzione e della giustizia. Ma costoro non sono stati gli unici a essere puniti. Essendo un animale politico spietato, capace di trasformare ogni crisi in un'opportunità di convenienza politica per tutta la durata della sua carriera, Erdogan si è sbarazzato di ogni avversario e critico possibile, facendo del tentato colpo di Stato la sua arma assoluta. Nella notte del tentato golpe, per ordine diretto di Erdogan i minareti hanno intonato la "sela", la preghiera dei morti, e hanno continuato a suonarla fino al mattino. Alcuni, me compresa, hanno ricordato i versi della poesia che fece di Erdogan prima un martire politico e poi, nel 1997, l'eroe delle masse: "Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette…" Quello era il capolinea. A molti, come me, non è rimasta altra scelta se non quella di partire. La Turchia ha assistito così alla sua fuga di cervelli più significativa. In tre anni hanno lasciato il Paese quasi quattrocentomila persone, perlopiù medici, accademici e ingegneri. Nel 2021, Erdogan è stato libero di equipararsi allo Stato e al partito dicendo: "Il destino del Paese è diventato tutt'uno con quello del partito. Chi non ama il partito non ama la Turchia". In ogni caso, il partito era spossato dalla lunga permanenza al potere e ha dovuto affrontare la crisi economica più grave della Storia turca, mentre l'opposizione radunava tutte le sue forze per dire "adesso basta". Lo abbiamo fatto due volte, alle elezioni del 14 maggio e al ballottaggio del 28. L'esito, però, è chiaro. Metà delle esortazioni del Paese a salvare le donne e i bambini dagli islamisti radicali, a liberare il Paese dal regime di un solo uomo e a invertire la fuga dei cervelli dalla Turchia è rimasta vana. Quasi il 52% degli abitanti del Paese – compresi siriani, qatarini e sauditi ai quali Erdogan ha dato la cittadinanza – hanno votato a favore del leader autoritario. Dalla sera delle elezioni l'altra metà della popolazione è lacerata dalla sensazione di aver perso il Paese per sempre e dal desiderio di raccogliere le forze per tenere testa alla situazione e combattere contro le tenebre. Tutti, però, sanno dalla storia di Erdogan che, se si arriverà a tanto, sarà un lungo inferno.
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