Turchia 1: la vendetta di Erdogan Analisi di Giordano Stabile
Testata: La Stampa Data: 30 maggio 2023 Pagina: 24 Autore: Giordano Stabile Titolo: «Erdogan, voglia di vendetta»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/05/2023 a pag.24 con il titolo "Erdogan, voglia di vendetta", il commento di Giordano Stabile.
Giordano Stabile
Recep T. Erdogan
Davanti al caffè Osman saranno una ventina, tutti uomini fra i trenta e i sessanta, le camicie a quadretti, le facce grigie come i vetri impolverati del locale, davanti ai tavolini con le scacchiere del taule, il backgammon mediorientale, o il rosario in mano e un bicchierino del tè, cupo come i loro sguardi. Alle propaggini occidentali di Fatih, ai piedi delle colossali mura romane, con incastonate le rovine del palazzo dei Porfirogeniti, l'ultima dinastia bizantina, l'aria è dimessa, come se il padrone di casa in questo quartiere conservatore, Recep Tayyip Erdogan, non avesse vinto. La sezione dell'Akp è ancora chiusa, il manifesto con lo slogan "l'uomo giusto, il momento giusto", mezzo scollato. Il fiume di turisti che invade e tiene in vita Istanbul qui sgocciola appena. Murat, 34 anni, barba nera tagliata a spazzola, ha provato a intercettarne qualcuno con un piccolo locale, dieci seggiole in tutto, sotto antiche arcate in mattoni. Mostra la vota con la moglie velata e i due figli di otto e dieci anni e attacca una lunga tirata contro i rifugiati siriani, causa di tutti i mali. Nella classe del più grande, spiega, "ora sono in quaranta, quindici arabi, che non parlano turco, è una bolgia, non si può andare avanti così". Ha sempre votato per l'Akp ed Erdogan ma questa volta non è andato ai seggi: "La politica ci ha rovinati, la lira non vale più niente, una volta che ho pagato l'elettricità e la benzina, a fine mese non mi resta nulla dell'incasso, che devo fare, me ne andrò in Canada come tanti miei amici". Il risveglio nel "secolo della Turchia", come l'ha definito il capo nella notte dopo la vittoria, sembra quello dopo una sbornia finita male. La prima brutta sorpresa, per milioni di piccoli imprenditori che sono nati e cresciuti nell'era Erdogan, è stato il crollo della valuta, che ha toccato i nuovi minimi storici nei confronti dell'euro, a quasi 23. La Borsa è andata su, ma non è un buon segno, perché sconta il fatto che sono in arrivo nuovi tagli ai tassi d'interesse per la strana idea di politica economica del leader turco, che ha imposto la riduzione del costo del denaro mentre l'inflazione galoppa all'85 per cento annuo, seconda sola a quella del Libano. Erdogan, davanti alla folla che lo osannava, ha sorvolato su questi aspetti spiccioli, per concentrarsi sui "sogni" della nazione, i grandi progetti in patria e alle frontiere. Ma sa molto bene che presto lui e il suo popolo dovranno fare i conti con la realtà. L'erosione del potere d'acquisto è troppo violenta, i dubbi fiaccano anche la sua base più fedele, e allora rilancia, devia la rabbia e le angosce, promette il pugno di ferro contro i curdi mentre i militanti cantano "pena di morte per Demirtas", il leader dell'Hdp imprigionato dopo la tremenda repressione del 2016, annuncia che manderà via "un milione di siriani", su base volontaria, certo, ma intanto ribalta la sua politica di accoglienza e strizza l'occhio agli ultranazionalisti. Ha una spina nel fianco destro. A partire dall'inaspettato consenso per Sinan Ogan, sovranista odiatore degli immigrati, che è dilagato persino nelle roccaforti dell'Akp come Fatih. In Parlamento, per quanto depauperato di potere dalla riforma presidenzialista, deve appoggiarsi sull'Mhp dei "lupi grigi", che i curdi li sterminerebbero e gli "arabi" li picchiano in raid sempre più frequenti. In quelle frasi rabbiose arrivate dopo le prime reazioni da padre della patria, di vittoria di "tutti gli 85 milioni di turchi", spiegano questo disagio, oltre il calcolo politico, cinico come al solito. Fra un anno ci saranno le amministrative, il Chp già controlla Istanbul, Ankara, Smirne, l'Akp rischia la disfatta. Il fronte dei sindaci, Ekrem Imamoglu e Mansur Yavas, è rimasto compatto attorno al candidato Kemal Kilicdaroglu, nonostante la frattura interna al partito, e ancora ci crede, lo stesso Kilicdaroglu ha evitato di ammettere la sconfitta e si è detto "triste per la situazione economica", con il peggio che "deve ancora venire". Come dire, "non è finita", e quel 48 per cento, conquistato con tutte le tivù e gli apparati dello Stato schierati contro, è comunque un risultato che fa sperare. Erdogan ha usato tutti i poteri, tutte le epurazioni dell'ultimo decennio, per ritagliarsi un posto nella Storia. Ma sente il vento girare, anche sul piano internazionale. Ha ricevuto le congratulazioni della Casa Bianca e del Cremlino, di leader asiatici ed europei, è vero, ma intanto Mosca minaccia di uscire dall'accordo sul grano, indispensabile per mantenere a livelli accettabili il prezzo del pane e dell'amata pide, la focaccia turca. In Medio Oriente ha assistito alla riabilitazione del suo nemico giurato Bashar al-Assad, che aveva promesso di abbattere per "andare a pregare alla moschea degli Omayyadi" a Damasco. Ora, se davvero vuole rispedire a casa i siriani, dovrà scendere a patti con l'odiato raiss, e forse, addirittura, ritirare le sue truppe dai territori occupati fra il 2016 e il 2019, abbandonare al loro destino gli alleati jihadisti usati per fare il lavoro sporco contro i curdi. Non sono belle prospettive. L'idea grandiosa di tornare il ponte indispensabile tra Oriente e Occidente si scontra con i limiti dell'economia, delle capacità industriali. Le sanzioni Usa pesano, il ministro dell'Interno Süleyman Soylu, campione sovranista dell'Akp, minaccia di "cacciare" i soldati statunitensi, colpevoli di proteggere i curdi, cavalca l'antiamericanismo, mai sopito ma alla fine impotente, perché tutti sanno che fuori dalla Nato il ruolo della Turchia sarebbe a dir poco dimezzato. La sbornia della retorica non è finita, Erdogan celebra su Twitter la "conquista di Costantinopoli", il 29 maggio di 570 anni fa. Era previsto un grande comizio, prima della preghiera a Santa Sofia, ma poi i piani sono cambiati. La realtà incombe, i sogni imperiali hanno bisogno di soldi, il consenso di pane e lavoro. Anche il Sultano che ha dominato il primo quarto del "secolo della Turchia" deve farci i conti.
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