Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 23/05/2023, a pag. 13, con il titolo “Il sindaco Reva: “Bakhmut è persa ma la ricostruiremo più bella di prima” ” l'intervista di Paolo Brera.
DNIPRO — «Tra due anni saremo lì, dove ora sventolano bandiere russe, per cominciare a ricostruirla più bella di prima, la nostra Bakhmut». Non ha perso l’ottimismo, il sindaco Oleksiy Reva. Nel suo ufficio a Dnipro, al piano alto di un dedalo di porte blindate, ha ricostruito il gabinetto municipale in esilio ed è tutto un viavai di collaboratori indaffarati, un firma e discuti, un «per oggi è proprio impossibile, il sindaco ha troppi impegni».
La battaglia è finita, lei ha 70 anni. Cosa resta da amministrare? «Sosteniamo i residenti, creiamo centri di supporto, abbiamo trasferito l’ospedale, aiutiamo le categorie protette, organizziamo attività culturali, ricreative, sportive. Oggi Bakhmut è cenere e rovine, purtroppo. Ma non è finita».
Oleksiy Reva
Due anni fa che città era? «Fu la prima capitale del Donbass, e una delle città più antiche della regione, fondata nel 1571. Aveva grandi potenzialità industriali».
Certo, lo spumante, 25 milioni di bottiglie spedite in tutto il mondo… «Artyomovsk era una delle più grandi cantine in Europa a produrlo, ed era ottimo. Ma avevamo anche la lavorazione dei metalli, manifatture industriali, un’importante azienda farmaceutica. La belga Siniat faceva materiale per costruzioni. Prima della guerra a Bakhmut lavoravano 15 compagnie straniere, un polo del business ma anche una città molto verde. I parchi, il lungo fiume bellissimo e curato. Avrebbe dovuto vedere cos’era la Valle delle rose. Mi creda: favolosa, 5mila tipi di rose».
Le città di stile sovietico lo sono sempre, verdi. «Ma creavamo infrastrutture di standard europeo come scuole e asili nido, poliambulatori e ospedali». Poi la guerra. Prima esplosione? «Subito dopo il 24 febbraio. Nel 2015 c’era stato qualche ‘arrivo’, eravamo vicini al fronte, ma non se ne andò nessuno: un episodio, pensavano».
La prima vittima? «Conta il totale, 204 morti e 505 feriti. Ci hanno ammazzato 4 bambini e ne hanno feriti 17». L’ultima volta in cui vide le rose? «Due mesi fa erano ancora lì. C’era anche il bellissimo Palazzo della cultura. Ora non esiste più niente».
Quando iniziò l’agonia? «La parte orientale è stata la prima attaccata. La sponda destra del fiume dove c’erano case private, due scuole, gli asili. Dopo ogni esplosione andavo sul posto con polizia e soccorritori. In via Lumumba colpirono un palazzo di 5 piani: c’era un cadavere a pezzi, un corpo senza la testa, feriti che sanguinavano. E non abbiamo piùtrovato una donna. Non riesco a dimenticarlo, quando vedi cose del genere ti resta un incubo dentro. Che strazio. Quando monitoriamo i video, dalle rovine non riesco neanche a capire il quartiere».
La routine quotidiana qual era? «Ogni mattina la riunione operativa in un ospedale pediatrico. Avevamo ricavato un’area per distribuire legna e carbone, stufe e generatori, aiuti e alimentari. Un giorno è arrivato un “Grad”, un miracolo che nessuno sia morto. Un minuto prima mi avrebbe centrato. Parcheggio al mercato per parlare con la gente, riparto e arriva un missile dove avevo parcheggiato. Svolto vicino a una chiesa per Kostantinivka e cade un missile dieci metri davanti. Metà degli abitanti ha avuto esperienze simili».
Non tutti possono raccontarla. «In centro viveva un operaio, era partito ma aveva deciso di tornare. Èuscito a fare due passi, il missile lo ha preso in pieno. Vivere o morire era solo destino».
Quando capì che era persa? «A fine marzo, è stata presa la parte orientale e c’erano bombardamenti massicci. Non posso dire tutto, ma la situazione era chiara. Potevamo solo cercare di evacuare tutti».
Qualcuno voleva restare? «In tremila. Abbiamo fatto di tutto per convincerli, per evacuare almeno i bambini. Pochissimi giorni fa l’ultimo, una 14enne. Parte della città aspettava i russi, in 500 sono restati».
Anche qualche bambino? «Due. Li nascondevano per non farceli trovare».
Come viveva chi restava? «Nei seminterrati abbiamo creato punti di resistenza con le dotazioni minime. Cibo, il WiFi con Starlink, e potevano scaldarsi. Otto giorni fa un dirigente del Comune che ci viveva con la famiglia è stato ucciso da un missile nel seminterrato. Gli dicevo: Vladimir Vladimirovich, andiamo, è ora di venire via. Ma lui rispondeva questa è la mia casa, la mia terra; i miei genitori sono sepolti qui. “Valodia”, gli dicevo, bisogna partire! E lui niet ,resto: è la mia città, la mia casa, il mio lavoro».
Bakhmut era già morta? «In autunno hanno chiuso i negozi. Non c’era luce né gas né acqua. Portavamo medicinali, rifornimenti,aiuti ma sì, era morta. Hanno colpito le stazioni di pompaggio dell’acqua, sottostazioni elettriche, il gasdotto».
Attacchi deliberati? «Bombardavano a tappeto e hanno distrutto tutto. Però nei seminterrati avevamo assistenza medica, stufe, legname e generatore. Rimasi fino a marzo, giravo la città che conosco fino all’ultimo mattone e non riconoscevo più nulla. Famiglie separate, destini persi. Tutti i sogni sterminati».
Ha sperato nella controffensiva? «Fino all’ultimo. Anche oggi penso tornerà nostra . Ecco (mostra le foto appena ricevute sul telefonino) questa è la Valle delle rose, questo lo Stadio Metallurgico. La palestra paralimpica, la Casa della cultura: non esiste più niente. Il Consiglio comunale, anch’esso distrutto. La mia collaboratrice mi ha mandato un messaggino: “Sto scegliendo le foto e sto piangendo”».
Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante