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israele.net Rassegna Stampa
16.05.2023 I palestinesi sono come tossicodipendenti di un ciclo infinito di “nakbe”
Analisi di Jonathan S. Tobin, da Israele.net

Testata: israele.net
Data: 16 maggio 2023
Pagina: 1
Autore: Jonathan S. Tobin
Titolo: «I palestinesi sono come tossicodipendenti di un ciclo infinito di “nakbe”»
I palestinesi sono come tossicodipendenti di un ciclo infinito di “nakbe”
Analisi di Jonathan S. Tobin, da Israele.net

Jonathan S. Tobin Archives - JNS.org
Jonathan S. Tobin

Commemoration of the 75th anniversary of the Nakba at UN Headquarters in  New York - Question of Palestine
Un manifesto che inneggia alla Nakba

Le informazioni più importanti sull’ultima ondata di scontri tra Israele e Gaza sono quelle che la corrispondente Raja Abdulrahim del New York Times ha omesso dalla sua scheda esplicativa intitolata “Cos’è la Jihad Islamica Palestinese e perché Israele la prende di mira”. La scheda conteneva alcuni dati pertinenti come il fatto che la Jihad Islamica, il secondo più grande “gruppo armato” palestinese, ha un rapporto difficile con la molto più grande Hamas e che entrambe sono designate come organizzazioni terroristiche dagli Stati Uniti (e da molti altri paesi ndr) e ricevono finanziamenti e armi dall’Iran. Ma la spiegazione di Abdulrahim dell’obiettivo della Jihad Islamica è volutamente vaga: tralascia il fatto che si tratta di una fazione islamista convinta che l’intero paese – Israele e territori – debba essere governato esclusivamente dalla legge islamica. Di più. Abdulrahim scrive che il gruppo è stato creato negli anni ’80 “per combattere l’occupazione israeliana”. Per la maggior parte dei lettori del New York Times e di ogni altro mass-media, questo significa che l’organizzazione vuole porre fine all'”occupazione” israeliana di Giudea e Samaria (“Cisgiordania”) e della parte est di Gerusalemme. Ma non è così per la maggior parte degli arabi palestinesi. Quando gli esponenti della Jihad Islamica Palestinese, così come quelli della rivale Hamas (che controlla Gaza) o anche i presunti “moderati” di Fatah (che controlla la corrotta Autorità Palestinese) parlano di “occupazione” non si riferiscono ai territori che Israele ha acquisito durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967 e che la comunità internazionale definisce erroneamente “palestinesi” anziché “contesi”. Per quanto li riguarda, ogni centimetro di Israele è “occupato” e lo stesso termine “Israele” viene spesso e volentieri sostituito col termine “occupazione”. Considerano la creazione dello stato ebraico 75 anni fa una nakba (“catastrofe”), un crimine che deve essere cancellato con la lotta violenta. La cosa è importante. In questi giorni, commemorando l’anniversario della nascita di Israele i sostenitori dei palestinesi celebrano la “Giornata della nakba” (e per la prima volta lo farà ufficialmente anche l’Onu, contraddicendo se stessa e i principi della propria Carta ndr). Per loro il 15 maggio – primo giorno d’indipendenza di Israele, che proclamò la propria indipendenza la sera del 14 maggio 1948 (in conformità a decisioni dell’Onu) – definisce l’esistenza palestinese come “popolo martire” il cui risentimento revanscista deve essere nutrito e alimentato fino a quando lo stato ebraico e la storia del secolo scorso non saranno cancellati. Scopo di questa politica palestinese non è creare uno stato accanto a Israele o qualsiasi altro obiettivo teoricamente costruttivo. E’ piuttosto quello di creare una serie infinita di eventi che sono in pratica mini-nakbe a ripetizione, in modo da mantenere viva la causa e alimentare all’infinito la rabbia per la capacità di Israele di sopravvivere e addirittura prosperare. Queste omissioni nella scheda esplicativa del New York Times non sono minuzie storiche. Sono le cose più importanti da sapere sui gruppi armati palestinesi e su perché sono sempre in guerra con Israele. E forniscono l’essenziale elemento di contesto che spiega come quest’ultimo round di combattimenti non sia semplicemente una “spirale di violenza”, che falsamente Abdulrahim afferma essere stata avviata dall’esercito israeliano. È invece parte di una guerra secolare il cui scopo è l’annichilimento di Israele. Quel pezzo sul New York Times è un classico esempio del pregiudizio dei mass-media, che risponde all’agenda poltico-editoriale del giornale. Ma indica anche un problema più ampio che domina il discorso sul conflitto: un deliberato esercizio di offuscamento in cui tutti fingono che il conflitto sia riducibile a niente più che un dissidio tra due parti che non riescono a trovare un compromesso. L’attuale scontro è stato avviato dalla decisione della Jihad Islamica Palestinese di “vendicare” con il lancio di razzi e missili contro civili israeliani la morte di uno dei suoi capi, Khader Adnan. Agli arresti per il suo ruolo nell’organizzare il terrorismo, Adnan è morto a seguito di un prolungato sciopero della fame che aveva intrapreso per ottenere la scarcerazione. Adnan ha rifiutato sia il cibo che le cure mediche, e alla fine è stato vittima di quello che è stato essenzialmente un atto di suicidio, poiché le autorità israeliane hanno evitato di nutrirlo o curarlo a forza contro la sua volontà. Adnan ha voluto offrire al suo popolo un altro martire da piangere e celebrare. Ma in un senso più ampio, è stato un gesto drammatico che serve a mostrare che la nakba è sempre in corso, anziché consegnarla alla storia. In questo caso, la sua morte è stata commemorata dai suoi compari con il lancio indiscriminato di razzi e missili sulla popolazione civile israeliana. Il governo israeliano ha giustamente reagito con attacchi mirati ai capi della Jihad Islamica a Gaza, che non devono pensare di poter terrorizzare gli israeliani impunemente. L’attacco, che le Forze di Difesa Israeliane hanno denominato operazione “Scudo e Freccia”, ha generato la consueta tornata di condanne da parte della comunità internazionale perché, nonostante la grande attenzione delle Forze di Difesa israeliane nel limitare il più possibile vittime civili, alcuni famigliari dei capi terroristi sono rimasti uccisi insieme loro. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e i suoi colleghi si trovano, come sempre, di fronte alla difficile decisione su fino a che punto debbano spingersi (e a quale prezzo) per eliminare la capacità dei gruppi terroristi come la Jihad Islamica Palestinese di terrorizzare la popolazione israeliana. La sventurata decisione del 2005 dell’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon di ritirare ogni insediamento, colono e soldato israeliano dalla striscia di Gaza mise in moto la catena di eventi che hanno portato Gaza a diventare uno staterello indipendente a tutti gli effetti governato dai terroristi di Hamas. Ciò ha permesso sia a Hamas che alla Jihad Islamica Palestinese di trasformare la striscia in un’enclave fortificata, nella consapevolezza che i leader israeliani sono estremamente restii dall’intervenire per sradicarli a causa dell’enorme costo in vite umane, sia israeliane che palestinesi, che ciò comporterebbe, oltre alla bufera di condanne internazionali che un’azione del genere scatenerebbe. E così Israele si limita a operazioni periodiche con cui la capacità dei terroristi di infliggere danni viene ridotta, ma mai del tutto eliminata. Non è risolutivo, ma permette a Gerusalemme di gestire il conflitto anziché lasciare il paese perennemente in balia dei capricci dei killer islamisti. Hamas e Jihad Islamica Palestinese non si pongono degli obiettivi politici concreti. Ma hanno la capacità di continuare a creare altre nakbe sacrificando vite umane fra la loro gente sia sotto forma di suicidi (in attentati o in carcere) sia di civili uccisi mentre fungono da scudi umani a difesa dei caporioni che fomentano, pianificano e realizzano attacchi terroristici contro gli israeliani. Ecco perché descrivere ciò che accade a Gaza come una “spirale di violenza” non è solo errato in sé, ma manca totalmente di cogliere il punto essenziale del conflitto. La narrazione palestinese della nakba è profondamente autodistruttiva, perché esalta il loro intransigente rifiuto di accettare la realtà che oggi gli ebrei vivono in gran numero nella loro antica patria, rivendicano la loro sovranità e il paese va condiviso con loro. Insistere a etichettare falsamente i veri originari del paese – gli ebrei – come invasori alieni colonialisti, serve a conservare il presunto status palestinese di “vittime del privilegio bianco” nella visione dell’ideologia intersezionale contemporanea, per la quale i diritti degli ebrei vengono cancellati. La commemorazione della loro storica sconfitta del 1948 ignora il fatto che vi fu uno scambio di popolazioni di profughi, con centinaia di migliaia di arabi in fuga o costretti a lasciare le loro case in quello che oggi è Israele, mentre un numero ancora maggiore di ebrei veniva cacciato da paesi in cui vivevano da molti secoli in tutto il mondo arabo e musulmano. Coloro che aderiscono alle commemorazioni palestinesi della nakba sembrano convinti che, protestando abbastanza forte e abbastanza a lungo, un giorno gli israeliani si stancheranno di lottare a difesa della loro esistenza e si arrenderanno. Questo semplicemente non accadrà mai. Ma aggrappandosi al loro vittimismo e alimentando una cultura politica in cui la loro identità nazionale è indissolubilmente legata alla guerra futile (ma sanguinosa) per distruggere Israele, i palestinesi non solo tengono vivo il ricordo della “catastrofe”: in realtà, lo ricreano perpetuamente con incidenti grandi e piccoli. Questo è il primo dato di fatto che bisogna capire se si vuole comprendere gli eventi passati e recenti, e perché questi incidenti sono verosimilmente destinati a ripetersi all’infinito fino al giorno in cui i palestinesi si renderanno conto dell’inutilità di questo sforzo tragico e, per loro scelta, senza fine.
(Da: jns.org, 9.5.23)

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