Non dimentichiamo il ‘gulag’ di Solzenicyn Commento di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 14 maggio 2023 Pagina: 10 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Non dimentichiamo il ‘gulag’ di Solzenicyn»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 14/05/2023, a pag. 10, l'analisi di Giulio Meotti dal titolo “Non dimentichiamo il ‘gulag’ di Solzenicyn”.
Giulio Meotti
Oggi la parola ‘Gulag’ è spesso usata in senso figurato, ma in Unione sovietica il Gulag – acronimo che designava il sistema dei campi di lavoro forzato – era fin troppo reale”, scrive questa settimana sul Wall Street Journal lo slavista americano Gary Saul Morson. “Milioni di persone vissero e morirono nelle numerose ‘isole’ del Gulag. Questa esperienza fu così diversa da qualsiasi cosa gli intellettuali occidentali avessero immaginato, e screditò così completamente il marxismo alla moda, che i resoconti dei sopravvissuti al Gulag furono derisi, specialmente dove l’ideologia marxista era più forte. ‘Arcipelago Gulag’, pubblicato 50 anni fa, era molto più di un resoconto dettagliato compilato dalle testimonianze di centinaia di persone; è stata la più grande prosa saggistica del XX secolo. In un passaggio memorabile, Solzenicyn riflette sul fatto che se gli intellettuali delle commedie di Cechov che si chiedevano come sarebbero andate le cose tra pochi decenni avessero appreso ‘che i prigionieri avrebbero visto i loro crani schiacciati all’interno di anelli di ferro; che un essere umano sarebbe stato calato in un bagno acido, che una bacchetta di ferro riscaldata su una stufa sarebbe stata spinta nel loro canale anale, che i genitali di un uomo sarebbero stati schiacciati sotto la punta di uno stivale… nessuna delle commedie di Cechov sarebbe arrivata alla fine perché tutti gli eroi sarebbero finiti in manicomio’”. Il Journal ha ragione: gli intellettuali occidentali lo derisero. E quelli italiani “specialmente” più di tutti gli altri. Come scrive ne “L’identità infelice” (Guanda) Alain Finkielkraut, “la lettura di ‘Arcipelago Gulag’ ci insegnò quanto l’enormità del crimine fosse connessa all’ideologia e questa rivelazione guarì molti di noi dall’arroganza intellettuale”. Ma se in Francia fu una rivelazione e rivoluzione, in Italia “Arcipelago Gulag” venne relegato ai margini. Per i 50 anni del libro in Italia non è previsto neanche un convegno o una mostra, che ormai non si negano a nessuno. Uno spirito libero della cultura francese, Jean-Francois Revel, nel libro “Per un’altra Italia” (mai ristampato, a proposito di “fare il vuoto”) raccontava una società italiana bloccata dal conformismo culturale e dove regna l’ammicco complice. Irina Alberti, amica e traduttrice di Solzenicyn, scriverà che in Italia su di lui si riversarono fiumi di calunnie e che “Arcipelago Gulag”, “scritto solo di notte, al chiaro di luna di una casupola abbandonata in riva al mare estone, d’inverno, senza mai accendere la stufa perché nessuno si accorgesse che c’era qualcuno in quel luogo considerato disabitato”, all’inizio venne di fatto boicottato. Mondadori, che nel 1973 ha portato il libro in Italia, ha un fascicolo dedicato alle recensioni di Solzenicyn talmente scarno da giustificare la scelta di non ristampare per decenni un libro che in Italia suscitò perlopiù indifferenza e spocchia. Così mentre il primo volume di “Arcipelago Gulag” ha avuto in Italia un’ottima tiratura, il secondo è uscito alla chetichella, quasi di nascosto e il terzo è rimasto per decenni in sospeso (solo cinque anni fa l’edizione completa). Oggi tutti si riempiono la bocca di Ucraina e Holodomor, ma “Raccolto di dolore” di Robert Conquest venne acquistato e tradotto per Garzanti da Sergio Minucci, poi rimarrà nei cassetti per vent’anni, fino all’edizione Liberal, scomparsa (oggi il libro è in ebook per Rizzoli). Quando uscì l’opera di Solzenicyn, ci fu l’invito paradossale al silenzio con cui si chiudeva la recensione di Pietro Citati, che agognava all’oblio: “Per coloro a cui la fortuna ha risparmiato una prova così atroce credo che sia più proficuo dimenticare del tutto il lugubre seguito di idee pervertite, di violenze e di torture, iniziato nel radioso 1789. Forse soltanto un oblio completo può liberarci da quel terribile fascino”. Confesserà Vittorio Foa: “Quando uscì la traduzione del libro di Solzenicyn lo vidi in libreria, lo sfogliai e non lo comprai. Ricordo questo come un vero atto di viltà: c’era qualcosa che volevo tenere lontano, a tal punto che poi il libro non l’ho letto”. Un mea culpa onesto che gran parte della nostra cultura ancora non ha mai fatto. Sul Mondo, Carlo Cassola disse che Solzenicyn era “un retore declamatorio che non vale niente come scrittore”. Umberto Eco, che dietro lo pseudonimo di “Dedalus” sul Manifesto si dilettava in ferocia ideologica, scrisse di meglio: “Solzenicyn è un Dostoevskij da strapazzo”. Solzenicyn fu attaccato da Italo Calvino per la sua religiosità slavofila (Calvino darà di “libellista anticomunista” anche a George Orwell). Dirà Piergiorgio Bellocchio, allora direttore dei Quaderni Piacentini: “Avevamo i paraocchi. Solzenicyn ci imbarazzava: andavamo cercando una critica marxista al tradimento del marxismo, mentre lui ci parlava in nome di una religiosità che consideravamo di destra, reazionaria. Non sapevamo che farcene”. E Giovanni Giudici, poeta e traduttore di Puskin: “La scomunica del ‘Paese fratello’ ce lo rese sospetto, attenuò l’interesse per quella terribile verità che Solzenicyn portava scritta sulle proprie pagine e sulla propria pelle. No, non abbiamo fatto abbastanza per lui, ma neppure per la classe operaia, per la gente, per il popolo russo”. “Solzenicyn non destò grande rumore”, disse Eugenio Montale, uno dei pochi che si prodigò per invitarlo in Italia. Solo il dissenso cattolico riuscì a incrinare la diga dell’autocensura. A portare in Italia per prima “Vita e destino” di Vasilij Grossman sarebbe stata una piccola casa editrice cattolica come la Jaca Book. Di Solzenicyn in Italia oggi non si ripubblica praticamente niente, a parte “Arcipelago Gulag”: così capolavori come “La quercia e il vitello” e “Padiglione cancro” sono introvabili al comune lettore. Roberto Calasso ne “L’impronta dell’editore” racconta qual era il clima: “Con maschia fermezza Lucio Lombardo Radice esortava a stringere le file contro i calunniatori dell’Urss (tutti ‘riformisti’, parola che oggi chiunque agogna ad attribuirsi e allora suonava come grave oltraggio). Erano ancora i tempi in cui il nome di Orwell veniva pronunciato con un senso di ribrezzo. Dopo tutto si trattava di un reprobo”. Il problema non fu soltanto Solzenicyn. Sulla stampa i dissidenti anticomunisti venivano difesi soltanto da poche mosche bianche come Enzo Bettiza, Lucio Colletti e Vittorio Strada. La recezione di Varlam Salamov e dei “Racconti della Kolyma” fu tale che diversi editori si rifiutarono di pubblicare le traduzioni dello slavista Piero Sinatti, che pubblicò una raccolta nel 1976 presso la piccola casa editrice Savelli. Quando uscì “Un mondo a parte” di Gustaw Herling, che dal 1955 visse a Napoli e lì morì nel 2000 dopo aver sposato la terza figlia di Croce (Lidia), suscitò soltanto tre recensioni: quelle di Paolo Milano e di Leo Valloni, che recensirono positivamente il libro, e di Paese Sera, che chiese l’espulsione dall’Italia dell’autore, internato per due anni in un campo di lavoro comunista. L’Unità intanto stroncava il film di Andrej Tarkovskij “L’infanzia di Ivan”, accusandolo di “calligrafismo”. Valerio Riva su Panorama lanciò un pesante guanto di sfida: “Gli editori italiani hanno censurato sistematicamente i dissidenti cubani. Per loro esisteva solo l’ufficialità del regime”. La lista delle “omissioni” è lunga e comincia con il dissidente più noto dell’anti castrismo, Carlos Franqui. Compagno di Fidel dalla prima ora, fu imprigionato, costretto all’esilio e pubblicò con grande successo “I miei anni con Fidel”. “Per strapparlo alla SugarCo lo comprò la Rizzoli, e lo fece tradurre, aggiornare, ampliare” dirà Riva. “Ma guarda caso non lo ha mai pubblicato”. Inutile cercare oggi in libreria le memorie di un altro celebre dissidente cubano, Armando Valladares, che nelle segrete castriste trascorse ventidue anni e che Amnesty International (quando era ancora Amnesty e non una mera ong progressista) nominò “prigioniero di coscienza”. Fu lui, nel 1982, a scioccare il mondo con il libro “Contro ogni speranza: ventidue anni nel gulag delle Americhe”, scritto dal suo esilio a Parigi (in Italia uscì per la minuscola casa editrice Spirali di Armando Verdiglione e mai ristampato, sotto censura da parte dell’intellighenzia di sinistra). Nel libro, Valladares raccontava la dittatura cubana, di come tappassero la bocca ai condannati perché al momento della scarica non gridassero “viva Cristo Rey!” o “muérte al comunismo!”, in una epopea di dolore che gli sarebbe valsa l’appellativo meritato di “Solzenicyn cubano”. Valladares e gli altri furono tenuti in isolamento completamente nudi in piccole celle dall’alto delle quali i secondini gettavano sui prigionieri palate di escrementi fino a ricoprirne il corpo. Fa impressione pensare che negli stessi periodi in cui nelle prigioni della Cabana accadeva tutto questo, non pochi cronisti andavano e venivano dall’Avana sempre nella speranza di essere scelti da Fidel Castro per un’intervista. Da “Vita e destino” di Grossman (Adelphi lo avrebbe commercializzato soltanto decenni dopo) ai libri di Andrej Sinjavskij, se non ci fossero state piccole case editrici cattoliche non avremmo mai letto gran parte della letteratura del dissenso. Come non si trova più niente dei capolavori di Boris Pilnjak, a cominciare dal magnifico “Mogano”. Erano anni in cui Sinjavskij, una delle figure più emblematiche della letteratura sovietica del samizdat, rilasciò un’intervista alla Rai che fu impietosamente censurata: “Liberarsi da una censura per finire sotto un’altra, che strano destino!”. Ludvik Vaculik era il “Solzenicyn cecoslovacco”. Privato del permesso di viaggiare o pubblicare, Vaculik aveva lanciato una stampa samizdat, che in segreto distribuiva libri dattiloscritti. Della “primavera di Praga” era stato attivissimo protagonista. Ma il suo straordinario romanzo “Le cavie” non è mai stato ristampato in italiano. Scomparso, come “Il vento va e poi ritorna” di Vladimir Bukovskij, che passerà da un manicomio politico a un altro. Nadezda Mandel’stam, la moglie del poeta Osip Mandel’stam, arrestato e morto, nel 1938, in un campo di concentramento russo, ha scritto il devastante libro di memorie, “L’epoca e i lupi”, che secondo Iosif Brodskij è la testimonianza letteraria più alta dell’èra sovietica, ma in Italia dopo le edizioni Mondadori (1971), Serra e Riva (1990) e Liberal (2006), è introvabile (perché?). Senza contare il destino di Dante Corneli, militante comunista fuggito in Urss nel 1922, recluso nel Gulag e poi tornato in patria nel 1970. Al ritorno, Corneli propose a Rizzoli e Mondadori le sue memorie. Deportato nel campo di Vorkuta, oltre il circolo polare artico, Corneli rimase ai lavori forzati per dieci anni e poi venne tenuto al confino. Nessun altro italiano ha vissuto più a lungo nei Gulag. Chiese a Rizzoli se era disposta a pubblicare i suoi ricordi. Non ebbe risposta. L’ex deportato ci riprova, stavolta con Mondadori, che rispose per comunicargli che era giunta “alla decisione di non potere, per varie ragioni di carattere editoriale, procedere alla pubblicazione del suo diario”. Così Corneli decide di pubblicare le sue memorie in proprio. E trova un editore, la piccola La Pietra, che però ne censura molte pagine. Nato a Parigi nel 1934 in una famiglia della nobiltà russa fuggita dal comunismo, Nikita Krivochéine nel 1948 è rientrato in Unione sovietica con i genitori che pensavano di trovare una Russia pacifica, ma che gli farà conoscere il Gulag prima di poter tornare in Francia nel 1971, grazie all’intervento personale di Pompidou. Krivochéine ha raccontato tutto in un libro toccante, “Des miradors à la liberté. Un Français-Russe toujours en résistance”. Suo nonno era ministro dello zar Nicola II. Suo padre ufficiale dell’esercito “bianco” che nel Gulag conobbe Solzenicyn. “Tra loro c’era un’amicizia che è durata tutta la vita. Quando ho lasciato l’Urss, Alexander Issaevich mi ha fatto l’onore di fare di tutto per salutarmi e incoraggiare la mia decisione di emigrare. Solzenicyn e Sakharov non volevano ‘vivere nella menzogna’. Ma i comunisti continuano a odiarli e a diffamarli”. Sarà per questo che nell’Italia rosso-stinto hanno fatto di tutto per farli dimenticare, per fortuna senza riuscirci.
Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante