La Knesset
Di tanto in tanto, per la Giornata dell’Indipendenza o prima di Rosh Hashanah (capodanno ebraico), una stazione radio o un giornale cercano di stabilire quale sia la canzone israeliana più amata di tutti i tempi. Quest’anno la canzone di Gali Atari del 1986 Ein Li Eretz Aheret (“Non ho un altro paese”) ha guidato la hit parade delle 75 migliori canzoni dei primi 75 anni d’Israele, scelte dagli ascoltatori di KAN Gimmel e dai lettori di Israel HaYom. Ovviamente i patiti della musica pop potranno discutere se questa sia davvero la migliore canzone in assoluto che Israele abbia prodotto dalla sua fondazione, ma ciò che resta innegabile è che questa canzone coglie perfettamente lo stato d’animo attuale del paese. Nel 2012, ad esempio, questa stessa canzone si piazzò solo al 47esimo posto in un’analoga hit parade delle 100 migliori canzoni israeliane condotta da un sito web culturale ebraico chiamato Megaphone. La canzone che risultò più amata quell’anno – la classica canzone d’amore Atur Mitzhech (“La tua fronte è adornata”) di Arik Einstein, Korin Allal e Yehudit Ravitz – quest’anno è arrivata solo al quarto posto.
Dunque Ein Li Eretz Aheret: stessa canzone, giudizio assai diverso. Come mai? Perché i tempi sono cambiati. Perché nel 2012 il paese non era lacerato dal genere di fratture che lo hanno lacerato quest’anno. Perché nel 2012 i versi di questa canzone non venivano ciclicamente intonati da parti diverse, nelle manifestazioni di protesta che agitano Israele. Quest’anno, sia coloro che si oppongono con fervore alla riforma giudiziaria sia coloro che premono per una formula di compromesso evocano i versi di quella canzone degli anni ‘80. Quest’anno, quella canzone riflette il sentimento condiviso da molti israeliani, nel momento in cui il paese entra nel suo 76esimo anno di vita: rabbia, delusione e frustrazione, ma anche la precisa consapevolezza che “non hanno un altro paese”. “Non ho un altro paese, anche se la mia terra è in fiamme” recita la strofa di apertura della canzone. E prosegue: “Ecco la mia casa. Non starò in silenzio, perché il mio paese ha cambiato volto. Non rinuncerò a ricordarglielo e canterò nelle sue orecchie finché non aprirà gli occhi”. Viene da chiedersi se l’anno prossimo, o l’anno dopo ancora, o fra tre o quattro o cinque anni quando altre questioni e crisi avranno soppiantato il dibattito sulla riforma giudiziaria, se questa canzone rimarrà in cima alla hit parade o se ne verrà preferita un’altra che esprimerà lo stato d’animo nazionale in quel particolare momento.
La Giornata dell’Indipendenza, preceduta dal Giorno del Ricordo dei caduti, quest’anno è arrivata al momento giusto, nel pieno dell’infuocato dibattito sulla riforma giudiziaria e sulla direzione generale della nazione. Quelle ricorrenze nazionali, così come la Giornata della Shoà una settimana prima, hanno fornito la prospettiva necessaria su ciò che è in gioco. Le giornate nazionali sono servite a ricordare al paese, e in particolare a coloro che stanno negoziando un compromesso sulla riforma giudiziaria, quanto sia necessario sollevare lo sguardo dal lavorìo quotidiano e avere una visione più ampia. Anche le minacce alla sicurezza delle scorse tre settimane – terrorismo incessante, razzi da Libano, Siria e Gaza, spacconate guerrafondaie da Teheran e Beirut – mettono le cose in una certa prospettiva e concentrano l’attenzione sulla necessità di trovare una soluzione alla questione della riforma giudiziaria se non si vuole fronteggiare la conseguenza che i nemici di Israele agiscano in base alla loro percezione che Israele è diviso, debole e a un passo dall’abisso. Il tradizionale show di decine di velivoli dell’aviazione nel Giorno dell’Indipendenza ha ricordato al paese la grande forza militare di Israele e, come ogni anno, è stato un richiamo da far venire la pelle d’oca all’enorme distanza che il popolo ebraico ha percorso, grazie a Israele, nei 78 anni dalla Shoà.
Per anni la battuta ricorrente è stata che se i nemici di Israele lasciassero in pace il paese, gli ebrei al suo interno si azzannerebbero fra loro. Gli eventi delle ultime settimane si sono incaricati di dimostrare che i nemici di Israele non hanno alcuna intenzione di lasciare in pace lo stato ebraico, e le Giornate di celebrazione nazionale somministrano un’iniezione di unità, contribuendo a garantire che gli ebrei che vivono a Sion non si suicidino. Per 48 ore, da lunedì sera fino alla fine della cerimonia del Premio Israel mercoledì sera, i mass-media sono stati pieni di storie di valore e abnegazione, anziché parlare della fine dello stato e della sua democrazia. Per un breve periodo, “sono fiero di essere israeliano” sono state le parole più ascoltate in televisione, anziché “mi vergogno della direzione verso cui sta andando il paese”. Il timori che la sacralità laica di queste Giornate venisse profanata da proteste indecorose nei cimiteri nel Giorno dei caduti, o durante l’annuale accensione delle torce o altri eventi topici nel Giorno dell’Indipendenza, sono risultati in gran parte infondati. A parte alcuni incidenti relativamente minori, la stragrande maggioranza delle cerimonie e degli eventi è trascorsa senza incidenti. Per la maggior parte, il 75esimo Giorno dell’Indipendenza d’Israele, sebbene più sobrio di quanto ci si poteva aspettare da un compleanno di tre quarti di secolo, è apparso simile a ogni altro Giorno dell’Indipendenza.
Poi è finito, e la realtà ha fatto di nuovo irruzione. “La Knesset ritorna dopo la pausa dalla tempesta” recitava giovedì mattina un titolo in prima pagina di Yediot Aharonot, secondo il quale all’interno del Likud è forte la preoccupazione che la “riforma giudiziaria rimanga congelata”. In altre parole, il paese ha avuto una pausa per alcuni giorni, ma ora la tempesta incombe di nuovo. E’ già tornata giovedì sera con la grossa manifestazione a Gerusalemme a favore della riforma giudiziaria, una manifestazione volta più a mandare un segnale al premier Benjamin Netanyahu che non a fare da contrappeso alle massicce manifestazioni delle settimana precedenti contro la riforma. La protesta di giovedì sera ha mandato un forte messaggio a Netanyahu: grossi guai in vista nella colazione, se cede sulla riforma giudiziaria. La tempesta è ripresa anche sabato sera, quando i manifestanti anti-riforma sono tornati in forze per la loro 17esima settimana consecutiva di proteste. E poi, fra domenica e lunedì, la Knesset rientra dalla lunga pausa pasquale per l’avvio della sessione estiva, che si preannuncia tumultuosa quanto quella primaverile.
Ma è probabile che questa tempesta sarà un po’ diversa. Se nella sessione precedente la Knesset è stata lacerata dal tema della riforma giudiziaria che ha furiosamente contrapposto l’opposizione alla coalizione di governo, è probabile che la nuova tempesta alla Knesset si consumi anche all’interno della coalizione stessa. La questione della riforma giudiziaria non è stata ancora risolta. Tutt’altro. Ma le trattative perseguono, e mentre proseguono ci sono poche aspettative che vada avanti l’iter di approvazione del primo disegno di legge avviato nell’ultima sessione, quello su come vengono nominati i giudici della Corte Suprema. Motivo? L’assoluta priorità della coalizione sarà ora l’approvazione del bilancio statale, che deve essere fatta entro il 29 maggio pena lo scioglimento automatico della Knesset e nuove elezioni anticipate (mentre tutti i sondaggi danno in caduta libera i suffragi dell’attuale coalizione di governo ndr).
Non sarà una passeggiata. I partner haredi (ultra-ortodossi) della coalizione di Netanyahu vogliono che il governo approvi una versione aggiornata della legge sulla leva militare dei giovani ultra-ortodossi prima della scadenza per l’approvazione del bilancio, cosa che genererà una notevole opposizione. La proposta del ministro della difesa Yoav Gallant permetterebbe agli haredim di evitare del tutto l’arruolamento impegnandosi negli “studi religiosi” non più fino a 26 anni d’età, ma solo fino a 23 o 21 anni. In parallelo, come una sorta di compensazione, aumenterebbero gli incentivi finanziari per chi presta servizio nelle unità combattenti. Se approvato, questo disegno di legge finirebbe sicuramente davanti alla Corte Suprema, che in passato ha già respinto varie formule volte a sancire nella legge accordi per l’esenzione degli haredim in base al principio che non rispettano l’eguaglianza e riconoscono un trattamento preferenziale agli ultra-ortodossi (di qui, per inciso, uno dei motivi per cui gli ultra-ortodossi sostengono la modifica della Corte Suprema ndr). Dunque, il disegno di legge getterà altra benzina sul fuoco delle proteste anti-riforma della Corte Suprema, che in ogni caso sono in parte alimentate dalla collera per il fatto che i partiti ultra-ortodossi, in quanto parte integrante del governo, stanno radicalmente modificando il modo in cui è gestito il paese sebbene per la maggior parte non si facciano carico dell’onere del servizio nell’esercito.
Sicuramente tutto ciò cancellerà in fretta la relativa pace e tranquillità politica dei giorni scorsi. Come si dice nell’esercito, dove il sabato molti soldati vanno in licenza, ogni Shabbat ha il suo motza’ei Shabbat: la sera in cui lo Shabbat finisce, i soldati tornano alle loro basi e ricomincia la dura realtà della vita quotidiana. Lo Shabbat/Giorno dei caduti/Giorno dell’Indipendenza è terminato, e Israele è di fronte alla sua uscita dal Sabato.
(Da: Jerusalem Post, 28-29.4.23)