I curdi in guerra contro l'Isis Analisi di Gianni Vernetti
Testata: La Repubblica Data: 30 aprile 2023 Pagina: 12 Autore: Gianni Vernetti Titolo: «In viaggio nel Rojava dove i curdi proseguono la guerra contro l’Isis: “Sogniamo la libertà”»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi 30/04/2023, a pag.12, con il titolo "In viaggio nel Rojava dove i curdi proseguono la guerra contro l’Isis: “Sogniamo la libertà” " l'analisi di Gianni Vernetti.
Gianni Vernetti
La frontiera fra la regione del Kurdistan iracheno e il Rojava è aperta solo tre giorni a settimana. Non è riconosciuta né dalla Siria, né dall’Iraq ed è l’unica gestita esclusivamente da due entità curde: il governo della Regione Curda Irachena e l’Amministrazione del Nord e dell’Est della Siria. C’è un’unica bandiera che sventola: quella bianca, rossa e verde, con il sole al centro dell’agognato Kurdistan, la più grande nazione senza stato, divisa oggi fra Turchia, Siria, Iran e Iraq. I peshmerga di Erbil da una parte del fiume Tigri e quelli delle Syrian Democratic Forces dall’altra controllano documenti e bagagli dell’unico accesso possibile per gli oltre cinque milioni di siriani che vivono in Rojava. Siamo alla frontiera di Semalka, vicino a Faysh Khabour, un piccolo villaggio di pescatori yazidi e assiri. Attraversato il ponte militare galleggiante si entra in Rojava dove si combatte ancora tutti i giorni contro l’Isis e per la sicurezza dell’Europa. La nostra sicurezza in Rojava è garantita dalle forze guidate dal generale Mazloum Abdi Kobane, l’esercito di 100.000 combattenti delle Syrian Democratic Forces, sostenuti dalle forze della Coalizione Globale contro l’Isis, ancora qui presente. In meno di un’ora raggiungiamo Qamishlo a ridosso del muro di novecento chilometri costruito dalla Turchia di Erdogan, non certo per contrastare l’Isis, ma per separare il proprio territorio dalle forze curde di Ypg e Ypj, considerate troppo contigue ai guerriglieri curdi turchi del Pkk. Due elicotteri russi volano a bassa quota lungo la frontiera e passano sopra le nostre teste: sono il frutto degli accordi di Sochi del 2019 fra Assad, Erdogan e Putin. «In base a questo accordo le forze russe sono state dispiegate lungo il confine turco-siriano con una funzione di interposizione fra noi e l’Esercito di Ankara - spiega Mazloum Abdi Kobane, la più alta autorità militare delle Syrian Democratic Forces - anche se la guerra fra Russia e Ucraina ha ridotto di molto l’attenzione di Mosca nell’area». Mazloum è da poco sfuggito ad un attentato a Suleymaniyya con un attacco di droni dell’esercito turco. Nel convoglio in cui viaggiava c’erano anche tre ufficiali statunitensi. La Turchia ha negato, ma tutte le informazioni di intelligence puntano sull’esercito di Erdogan. Questo è uno dei grandi paradossi del Rojava: le milizie curde, siriache, assire, yazide, inquadrate nelle Sdf, sono il più importante alleato dell’occidente nella lotta all’Isis e contemporaneamente vengono attaccate e combattute dalla Turchia, Paese membro della Nato. «La guerra contro l’Isis non è ancora conclusa - insiste Mazloum - l’Isis ha cambiato strategia, ma non ha esaurito le proprie capacità di raccolta fondi e continua a reclutare e ad addestrare molti militanti. Molti gruppi sono ancora attivi e stimiamo che vi siano ancora 15.000 combattenti Isis fra Iraq e Siria». «L’assalto di un anno fa alla prigione di Hasakah - prosegue - è la dimostrazione dei rischi ancora rappresenti dalle milizie di Daesh: cento guerriglieri e dodici attentatori suicidi hanno assaltato il carcere. È stata una battaglia molto dura ed abbiamo perso 120 dei nostri soldati. Abbiamo catturato oltre mille membri di Daesh in fuga, ma in più di duecento sono riusciti afuggire». Il campo profughi Al-Hawl a 30 minuti di auto da Al-Hasakah ospita ancora oggi circa 60.000 donne e bambini familiari di combattenti Isis, in gran parte rimasti uccisi durante la guerra di questi anni. Il campo è una bomba ad orologeria che ospita famiglie di oltre cento nazionalità. A poca distanza da qui, l’amministrazione curda gestisce un altro centro quello di Helatnel quale vengono tutti i giorni ospitati 60 bambini fra i 3 i 13 anni le cui madri, militanti di Isis, sono tutt’ora detenute: «All’inizio molti di questi bambini rifiutavano di ascoltare la musica - racconta la coordinatrice del campo (che preferisce rimanere anonima) - o di fare attività sportiva o leggere un libro di storia, ma poco alla volta il loro coinvolgimento nelle attività didattiche sta crescendo». Sul muro sono appesi i disegni fatti questa mattina dai bambini e fra quelli coloratissimi e di fantasia, uno dei bambini ha appena disegnato una jeep con mitra e bandiera dell’Isis. Il campo è finanziato dal programma civile della Global Coalition e non c’è traccia dell’Unicef: lo status giuridico dell’area curda del nord della Siria è un limbo che non permette il dispiegarsi delle organizzazioni delle Nazioni Unite. L’Amministrazione del Nord e dell’Est della Siria che governa su 5 milioni di abitanti, 55.000 chilometri quadrati e un terzo della Siria a Nord dell’Eufrate, cerca faticosamente di conciliare sviluppo, attività economiche e lotta al terrorismo. Come racconta Amid Hamed El-Mibash, co-chair dell’amministrazione regionale, arabo e di Raqqa, «Siamo si fronte ad una doppia sfida: consolidare le strutture democratiche per garantire multipartitismo, separazione dei poteri, magistratura indipendente e contemporaneamente condurre la guerra contro il jihadismo. La guerra contro Isis ha già portato via 14.000 nostri combattenti e 20.000 feriti. Ciò che chiediamo all’occidente non è solo partnership militare, ma riconoscimento politico internazionale dell’amministrazione del Nord e dell’Est della Siria, a cominciare dall’eliminazione delle sanzioni nelle aree liberate dal regime di Assad». «Siamo oggi l’alternativa democratica al regime genocida di Assad - incalza Ilham Ahmned, co-presidente donna del Syrian Democratic Council - e per colpa dei veti della Russia al Consiglio di Sicurezza e della Turchia che ci contrasta in ogni modo, siamo stati abbandonati dalla comunità internazionale». L’area libera del Nord della Siria è un crogiolo di minoranze: curdi, arabi, cristiani, assiri, yazidi, armeni, circassi. Nazira Gavriye, leader del Syriac Union Party, che riunisce una parte rilevante della minoranza cristiana racconta la Siria che vorrebbe, dopo la definitiva sconfitta di Isis: «Multietnica, multiconfessionale, libera e democratica ». Qui, tutte le cariche sono doppie: un uomo ed una donna per ogni ruolo politico e istituzionale e, a cominciare dall’esercito, la presenza delle donne non è solo simbolica, ma forte e vitale. A poca distanza dalla sede del partito degli assiri c’è il Monastero di Santa Febronia, protetto da un posto di blocco degli Azayish, la polizia curda, e a soli 500 metri dal muro con la Turchia. I cristiani in Siria prima del Califfato era quasi il 20% della popolazione, oggi meno dell’8%. Ci spingiamo in profondità verso occidente e raggiungiamo i villaggi cristiani di Tall Tamir e Tall Nasri, stravolti dalla furia dell’Isis: la chiesa totalmente distrutta e centinaia di assiri rapiti. Oggi nel villaggio sono rimaste soltanto 5 famiglie mentre in 2.000 sono emigrati in Canada e in Australia. Ma i pericoli non giungono soltanto da ciò che resta delle milizie del Califfato. «L’Iran rappresenta una minaccia costante nelle regione - ricorda la generalessa Newroz Ahmad, comandante in capo delle Ypj, la milizia curda composta esclusivamente da donne - ed il progetto della “mezzaluna sciita» è più vivo che mai. Teheran non ha mai rinunciato alla creazione di una continuità territoriale fra l’Iran e il Mediterraneo. Le milizie di Hezbollah, in coordinamento con il regime di Assad, sono molto attive a Deir el Zor e in altri centri della regione». E infine la Turchia, partner Nato, ma con una sua agenda nella regione in netto contrasto con quella occidentale: «Il regime di Erdogan - conclude - sostiene diversi gruppi jihadisti, lancia i suoi droni contro le nostre guerrigliere ed ha un unico obiettivo: combattere i curdi. Guardiamo con speranza alle elezioni in Turchia del prossimo 14 maggio, le opposizioni possono vincere ed un cambio di regime è possibile».
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