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La Repubblica Rassegna Stampa
30.04.2023 Israele, i primi 75 anni - parte 3
Commento di Enrico Franceschini

Testata: La Repubblica
Data: 30 aprile 2023
Pagina: 38
Autore: Enrico Franceschini
Titolo: «Israele, i primi 75 anni»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 30/04/2023, a pag. 38, il commento di Enrico Franceschini dal titolo "Israele, i primi 75 anni" - parte 3.

ENRICO FRANCESCHINI | Cristofariphoto
 Enrico Franceschini

Yom Ha'atzmaut: Israel Independence Day | My Jewish Learning

segue dalle pagine precedenti

I critici dell’operazione Furore di Dio la condannano come una campagna di assassinii politici, resa ancora più problematica, in un episodio in Norvegia, dall’uccisione della persona sbagliata. Ricorda Aron Yariv, un generale israeliano a capo dell’operazione: «Mandare un commando a uccidere era moralmente accettabile? Questo può essere discutibile. Ma era politicamente necessario? Assolutamente sì. Non avevamo altra scelta, se volevamo provare a impedire che azioni del genere si ripetessero a oltranza ». Eppure, il terrorismo non si spegne. A ogni palestinese assassinato da Israele, risponde un attentato. Quattro anni dopo il massacro alle Olimpiadi, un commando palestinese compie un’azione altrettanto clamorosa, dirottando a Entebbe, nell’Uganda del feroce dittatore Idi Amin, un aereo della Air France partito da Tel Aviv con 248 passeggeri a bordo, in gran parte ebrei. Il raid di Entebbe per liberarli verrà ricordato come un’epica “missione impossibile”. I commandos israeliani riportano a casa quasi tutti gli ostaggi, senza subire perdite, tranne una: il comandante della missione. Si chiama Yonatan Netanyahu. Anche suo fratello minore Benjamin entrerà nelle forze speciali. Diventerà il primo ministro più longevo nella storia di Israele. Se azioni deterrenti e raid eroici non possono estirpare il terrorismo, come fermarlo? Una delle mie prime interviste come corrispondente da Israele è con Shimon Peres, all’epoca ex premier, ex ministro degli Esteri, ex braccio destro di Ben Gurion: «L’Antico Testamento descrive la decisione di Eva di accettare la mela dal serpente come il peccato originale, il peccato da cui tutto discende e di cui l’uomo deve eternamente mondarsi per guadagnare il perdono divino», mi dice il grande statista. «Ebbene, anche noi ebrei abbiamo un peccato originale da scontare: quando Herzl, il teorico del sionismo, pronunciò il suo famoso slogan, secondo cui “un popolo senza una terra” andava verso “una terra senza un popolo”, ometteva il fatto che su quella terra c’era un altro popolo, il popolo palestinese. Molto altro è accaduto da allora, distribuendo torti e ragioni da entrambe le parti del conflitto. Ma per riparare il nostro peccato originale, c’è un solo modo: dare una terra anche ai palestinesi». Il tentativo di liberarsi del peccato originale inizia nel 1979, con una stretta di mano tra due leader: l’egiziano Anwar Sadat e l’israeliano Menachem Begin sanciscono l’accordo di Camp David, dal nome della residenza di campagna del presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, che ne è il mediatore. Si tratta di una “pace fredda”, ovvero non calorosa, ma è lo stesso una svolta: il più importante Stato arabo riconosce il diritto di esistere di Israele. Begin e Sadat vincono il Nobel per la pace. Ma il 6 ottobre 1981 il presidente egiziano viene assassinato da militanti islamisti contrari alla sua storica decisione. Passa un decennio prima che il cammino della pace riprenda, con il “processo di Oslo”, sostenuto dal presidente Bill Clinton nel 1993, un ciclo di trattative segrete fra israeliani e palestinesi nella capitale norvegese che porta a un’altra stretta di mano: quella tra Rabin e Arafat alla Casa Bianca. La loro intesa prevede la creazione di territori sotto diretto controllo palestinese in Cisgiordania e a Gaza, la cooperazione fra i servizi di sicurezza israeliani e palestinesi per combattere il terrorismo e il progetto di dichiarare entro cinque anni uno Stato palestinese che viva in pace e sicurezza reciproca accanto a Israele. Come Begin e Sadat, anche Rabin e Arafat ottengono il Nobel per la pace, insieme all’altro autore dell’accordo, il ministro degli Esteri israeliano Peres. Sul prato della Casa Bianca, l’ex generale Rabin cita la Bibbia: «La terra del latte e del miele non deve diventare la terra delle lacrime e del sangue. La pace si fa tra nemici, non tra amici». Come Sadat, il leader israeliano paga con la vita il suo gesto: due anni più tardi viene assassinato a Tel Aviv da un estremista ebreo contrario alla pace. Nel discorso alla Casa Bianca in cui ne annuncia la morte, Bill Clinton appare commosso come se avesse perso un fratello e un modello: «Il mondo ha perso uno dei suoi più grandi uomini», dice il presidente americano. «Un guerriero per la libertà della propria nazione. Un paladino per la pace della propria nazione. Per mezzo secolo, Yitzhak Rabin ha rischiato la vita per difendere il proprio Paese. Oggi, ha dato la vita per difendere la pace. E la pace sarà l’eredità che ci lascia». Per un po’ sembra vero. Le elezioni in cui forse il laburista Rabin sarebbe stato rieletto sono vinte dal suo avversario Netanyahu, leader del Likud, il partito della destra israeliana, che sconfigge a sorpresa il premier a interim Peres, ma anche Netanyahu all’inizio tratta con Arafat, firmando due accordi con il presidente dell’Autorità Palestinese. E dopo qualche anno la storia si ripete, non solo nel segno della tragedia ma pure nella speranza. In Israele si dice che soltanto un ex generale può realizzare veramente la pace e il destino disegna le stesse circostanze che esistevano prima dell’assassinio di Rabin: Netanyahu perde le successive elezioni, al suo posto diventa primo ministro Barak, ex generale, ex ministro della Difesa, nuovo leader del Labour, il capo del commando che travestito da donna aveva ucciso tre palestinesi a Beirut, l’ufficiale più decorato al valore nella storia di Israele. Al summit di Camp David, nell’estate del 2000, Israele offre ad Arafat uno Stato indipendente in Cisgiordania e a Gaza, con Gerusalemme Est come capitale (la Città Vecchia con i luoghi santi sarebbe stata sotto gestione congiunta) . L’unica questione su cui Barak non cede è il “diritto al ritorno” dei palestinesi che vivono da generazioni nei campi profughi del Medio Oriente: perché dovrebbero tornare dopo 52 anni nelle città israeliane, osserva, visto che ora avranno un proprio Stato in cui stabilirsi? «Accetti questa offerta, Abu Ammar», dice ad Arafat, chiamandolo con il suo nome di guerra, l’ambasciatore saudita a Washington. «La accetti ora o rimpiangerà per sempre di non averlo fatto». Parole profetiche. Arafat si impunta sul diritto al ritorno, la trattativa fallisce, Barak non viene rieletto primo ministro, al potere torna il Likud, scoppia una nuova Intifada, stavolta non con pietre tirate dalle fionde ma con kamikaze palestinesi che si fanno saltare in aria in mezzo ai civili israeliani, a Gaza prendono il potere i fondamentalisti di Hamas in contrapposizione con l’Olp in Cisgiordania e la pace si allontana. Due anni prima di morire, Arafat mi appare spento, in un’intervista nel suo quartier generale a Ramallah: «Se non sarò io a vedere uno Stato palestinese, lo vedrà mia figlia». Ma finora non lo ha visto nemmeno sua figlia: nonostante qualche altro tentativo di dialogo, l’occasione perduta del 2000 genera due decenni di lacrime e sangue. Altri conflitti danno l’impressione che quello israeliano-palestinese non sia più la priorità in Medio Oriente: la guerra in Iraq nel 2003; il sedicente Stato terrorista dell’Isis; l’allarmante programma nucleare iraniano. Gli accordi di Abramo, firmati tra Israele e quattro Paesi arabi durante la presidenza Trump, dimostrano come quelli siglati in precedenza da Egitto e Giordania che il mondo arabo è disposto a fare la pace con lo Stato ebraico anche senza avere risolto la questione palestinese. Promessa due volte, da Iddio agli ebrei, quindi dagli ebrei almeno in parte agli arabi, la terra fra il Giordano e il Mediterraneo rimane al centro di un secolare conflitto. Fino alla sua morte, nel 2016, Peres ripete un ammonimento: «Se non daremo uno Stato ai palestinesi, ci saranno solo due possibilità, o non saremo più uno Stato ebraico, perché gli arabi saranno la maggioranza della popolazione, o non saremo più uno Stato democratico, perché quegli arabi non avranno diritto di voto». Esiste una terza opzione, quella di Netanyahu, che sembra optare per mantenere a tempo indeterminato lo status quo. Ma in Israele, come in Europa e negli Usa, molti non sono d’accordo con lui. «Fino a quando continua questa situazione, il nostro Paese va condannato per il sistematico abuso dei diritti dei palestinesi», scrive sul Jerusalem Post Gershon Baskin, un giornalista israeliano che ha collaborato alla nascita del processo di pace. «Nella situazione attuale, il nostro Stato pratica una nuova forma di apartheid: due popoli che vivono nella stessa terra con diritti legali diversi. Chi dice queste cose viene bollato come antisemita, ma io mi limito a criticare il mio governo». Anche questo israeliano così critico verso Israele però aggiunge: «Mettere fine all’occupazione e dare ai palestinesi i loro legittimi diritti nazionali sarebbe più facile, se i palestinesi mettessero in ordine la loro casa politica, avessero un governo invece che due, facessero libere elezioni, avessero una leadership nuova, giovane, dinamica e composta anche di donne». Insomma, ci vorrebbe un miracolo, anzi una serie di miracoli: ma quando cammini per la Città Vecchia di Gerusalemme ti pare di seguire le orme di Abramo, di Gesù, di Maometto. La Terra Santa è la terra dei miracoli, della fede che non si spegne mai, nemmeno nei momenti più bui. Un fiore nel deserto E a riguardare i progressi compiuti dal piccolo Stato di Israele, 75 anni dopo la sua fondazione con la guerra d’indipendenza, sembra davvero di avere assistito a un miracolo. Dall’odio millenario dell’antisemitismo e dalle ceneri dell’Olocausto è sorto un Paese che oggi è all’avanguardia nella medicina, nella ricerca scientifica, nell’innovazione, il secondo al mondo (dietro gli Stati Uniti) per numero di aziende quotate al Nasdaq, la borsa delle alte tecnologie in America, in possesso (sebbene non lo dichiari ufficialmente) di 200 missili atomici basati su sottomarini, dunque uno della decina di Stati provvisti del deterrente nucleare. Si usa dire che, con i suoi kibbutz, Israele ha fatto fiorire il deserto. Uno dei suoi fiori più belli è Tel Aviv, la città più grande, moderna e globalizzata dello Stato ebraico, fondata dai pionieri sionisti soltanto nel 1909. “Gerusalemme prega e Tel Aviv si diverte” recita un assioma locale, esprimendo il dualismo tra la capitale politico-religiosa, cuore dell’ebraismo, e la Miami Beach mediterranea, espressione della Israele più laica e godereccia: «Una città magica», la descrive l’architetto francese di origine ebraica Charles Zana, «dove come a New York non si dorme mai». Ma il fiore più importante sbocciato dal 1948 a oggi in Israele è indubbiamente la democrazia: l’unica piena democrazia del Medio Oriente. «Nonostante l’ininterrotta guerra combattuta ai suoi confini e gli episodi di terrorismo all’interno del proprio territorio da parte di chi non ha mai voluto riconoscere la legittimità dello Stato ebraico», dice il professor Sergio Della Pergola, storico dell’ebraismo di fama mondiale, uno dei diecimila israeliani di origine italiana (suo padre fu l’inventore del Totocalcio), «Israele ha dimostrato eccezionali capacità di tenacia e resilienza, di innovazione accademica e tecnologica, di perseveranza nel risolvere problemi che ancora piagano Paesi con esperienze assai più lunghe di sovranità, nel mantenere la moralità della cosa pubblica grazie a un sistema giudiziario impeccabile e nel creare una cultura originale e attraente. Per tutto ciò ha rappresentato una fonte di ispirazione e di orgoglio non solamente per il popolo ebraico, ma per l’intera umanità. Con le sue utopie e le sue tensioni, oggi Israele è forse la cartina al tornasole della democrazia occidentale». Certo, riconosce Della Pergola, «negli ultimi anni le tribolazioni della democrazia non hanno risparmiato Israele, il dibattito sulla doverosa separazione fra i poteri, sulla tutela delle minoranze, sul rapporto fra religione e società civile, si è intensificato al punto da raggiungere lo stallo fra le maggiori alternative politiche»: allude alla crisi scatenata dalla riforma della giustizia proposta da Netanyahu, con il sostegno dei partiti di estrema destra della sua coalizione. L’iniziativa che negli ultimi mesi ha paralizzato il Paese con manifestazioni di massa, scioperi e proteste senza precedenti. Isaac Herzog, il presidente di Israele, ha evocato il rischio di una guerra civile. Così, proprio nel 75esimo anniversario della nascita del loro Stato, numerosi commentatori esprimono timori per la democrazia israeliana. «Israele ha realizzato tante speranze», commenta Angela Polacco Lazar, guida per tanti visitatori italiani in Terra Santa e punto di riferimento della comunità ebraica di origine italiana. «Non tutte le speranze: quella più desiderata, che si invoca attraverso la preghiera decine di volte al giorno, sembra ancora lontana. Eppure, sono sicura che tra le vie della pace ce ne sia una che rimane nascosta, che non riusciamo ancora a vedere. Ai nostri figli lasciamo un Paese che ha raggiunto traguardi inimmaginabili in 75 anni, insieme a conflitti interni ed esterni irrisolti. Ma guardando lo sguardo fiero e sincero della nostra gioventù, addestrata a combattere per difenderci e al tempo stesso libera di spirito, appassionata della vita, io resto ottimista ». Traguardi e conflitti, speranze e paure, utopie e tensioni. I tre quarti di secolo dello Stato ebraico, in fondo, si possono riassumere con il titolo del romanzo più bello di Amos Oz, che si riferisce alle vicende familiari del grande scrittore israeliano ma è una metafora dei trionfi e dei drammi di Israele: Una storia di amore e di tenebra. La tenebra dell’Olocausto e della guerra più lunga. L’amore di un piccolo, formidabile popolo per una fede, per una terra, per il diritto di esistere liberi.

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