Israele, i primi 75 anni - parte 1 Commento di Enrico Franceschini
Testata: La Repubblica Data: 30 aprile 2023 Pagina: 36 Autore: Enrico Franceschini Titolo: «Israele, i primi 75 anni»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 30/04/2023, a pag. 36, il commento di Enrico Franceschini dal titolo "Israele, i primi 75 anni" - parte 1.
Enrico Franceschini
Immaginiamo un suono di cornamuse. È la sera del 14 maggio 1948. Sta per nascere lo Stato di Israele. Nelle antiche strade della Città Vecchia, la struggente melodia annuncia la partenza dei soldati britannici, che hanno occupato Gerusalemme per trent’anni. Alle finestre delle abitazioni o sulle soglie delle sinagoghe, vecchi dalle grandi barbe bianche osservano la sfilata militare. I loro antenati hanno visto partire molti altri occupanti: assiri, babilonesi, persiani, crociati, arabi, turchi. Ora tocca agli inglesi. Quando l’ultimo distaccamento di soldati giunge davanti all’arco di una casa in pietra, il plotone si arresta. Un ufficiale bussa al portone, gli apre il rabbino Mordechai Weingarten. «Dall’anno 70 dopo Cristo fino a oggi, nessuna chiave di Gerusalemme è stata nelle mani degli ebrei», dice l’ufficiale. «Oggi è la prima volta in quasi venti secoli che il vostro popolo ottiene questo previlegio». E gli consegna la chiave della porta di Sion, una delle sette porte della Città Santa. Il rabbino risponde: «Che tu sia benedetto, o Iddio che ci hai concesso di vivere questo giorno. Accetto questa chiave in nome del mio popolo». Ma mentre l’ufficiale britannico fa dietrofront e scendono le luci del crepuscolo, un nuovo rumore, sordo e minaccioso, subentra al suono delle cornamuse: il crepitio della fucileria. Ancora una volta Gerusalemme sta per diventare un campo di battaglia. Le sue mura apparterranno soltanto a chi saprà conquistarle.
L’anno prossimo a Gerusalemme
L’episodio raccontato da Dominique Lapierre e Larry Collins nel libro Gerusalemme! Gerusalemme! fotografa l’inizio di un conflitto durato fino ai giorni nostri, attraversando l’intera storia del moderno Stato di Israele, che in questi giorni compie 75 anni di vita. Una storia le cui radici partono dall’Antico Testamento, il libro che narra l’esodo del popolo ebraico fino alla Terra Promessa e, tra il 900 e l’800 avanti Cristo, l’avvento del regno di Israele di re Davide e re Salomone. Quel testo costituisce anche la prima parte della Bibbia dei cristiani, ma i primi padri della Chiesa, nell’ardore di convertire le masse pagane, si sforzarono di sottolineare la differenza che separava la nuova fede dal giudaismo, piuttosto che metterne in evidenza i legami: tacendo che Gesù era ebreo e che l’Ultima cena è una celebrazione della Pasqua ebraica. In seguito, gli imperatori romani convertiti condannano gli ebrei alla segregazione. L’Impero di Bisanzio li mette fuori legge. Gli Stati europei negano loro il diritto alla proprietà. Nel 1215 la Chiesa di Roma li obbliga a portare un marchio per distinguerli dalle altre razze. I re di Francia eInghilterra sequestrano i loro beni. In Russia viene coniata una parola che diventerà di uso comune per descrivere i massacri di comunità ebraiche: pogrom. Poi viene l’Olocausto. Soltanto nel 2000, durante il suo pellegrinaggio a Gerusalemme, papa Giovanni Paolo II afferma che gli ebrei sono «i fratelli maggiori» dei cristiani, porgendo pubbliche scuse per il ruolo della Chiesa in venti secoli di antisemitismo. Poco più di cent’anni prima dello storico viaggio di Wojtyla in Terra Santa, l’ingiusta condanna di un ufficiale francese di origine ebraica mette in moto la resistenza a questo odio millenario. Tra la folla che assiste alla degradazione di Alfred Dreyfus nel cortile della École Militaire di Parigi, nel 1894, c’è un giornalista viennese, anch’egli un ebreo assimilato, cioè perfettamente integrato nella società del suo Paese, fino a quel momento indifferente a questioni di razza e di religione. Si chiama Theodor Herzl. Quel giorno capisce che il vulcano dell’antisemitismo non si sarebbe mai spento e gli ebrei avrebbero potuto sopravvivere solo diventando una nazione. Rientrato a Vienna, due anni dopo pubblica il manoscritto Lo Stato ebraico e fonda il movimento sionista, dal nome del monte Sion che sorge al centro di Gerusalemme. Per duemila anni gli ebrei della diaspora disseminati a ogni angolo della terra hanno pregato con l’invocazione: «Se ti dimentico, Gerusalemme, che mi si mozzi la mano destra!»; e a ogni Pasqua, hanno ripetuto la promessa solenne di ritrovarsi «l’anno prossimo a Gerusalemme», il desiderio di tornare a casa, prima o poi, nonostante ogni ostacolo. E quale poteva essere la loro casa? Dopo varie ipotesi, i sionisti scelgono la terra degli avi, la Terra Promessa dell’Antico Testamento, da dove non se ne erano mai andati del tutto: nel momento in cui Herzl assiste all’umiliazione di Dreyfus, trentamila dei cinquantamila abitanti di Gerusalemme sono ebrei. Sotto le pressioni del movimento sionista, nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour dichiara che il governo di Sua Maestà «considera favorevolmente la creazione di un focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina», all’epoca una colonia del Regno Unito. L’annuncio moltiplica l’immigrazione ebraica nella regione. Gli arabi cominciano ad aggredire gli ebrei, con i quali fino ad allora avevano vissuto in relativa armonia. Gli ebrei si difendono e aggrediscono a loro volta gli arabi. È una lenta, progressiva guerra civile. Durante la Seconda guerra mondiale il Gran Muftì di Gerusalemme, Mohammed Said Haj Amin al Husseini, più alta autorità religiosa islamica nella Palestina britannica, si rifugia a Berlino, appoggia la Germania nazista, incontra Hitler, pensando che la vittoria tedesca libererà il suo popolo di due nemici in un colpo solo: gli ebrei e i britannici.
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